Gertrude Stein | Autobiografia di Alice Toklas
Mentre perdevo mezzo polmone nella salita di rue Cardinal Lemoine, Parigi, pensavo a questo: che non sono portata per la fatica fisica – dev’essere una questione di predisposizione naturale – e che ci sono due modi di concepire l’arte: come divertimento, alla stregua di un ottovolante di un’abbuffata di torta di mele di una partita di rugby; oppure come una cosa reale, e serissima.
Entrambi i modi son pienamente legittimi, sia chiaro: ma se il primo provoca tutt’al più qualche chiazza di sudore o una meschina indigestione, il secondo – volta la carta – porta all’ossessione.
“Matisse possedeva in quei tempi un piccolo Cézanne e un piccolo Gauguin, e diceva che tutti e due gli erano necessari. Aveva comprato il Cézanne con la dote di sua moglie e il Gauguin con l’unico gioiello che lei avesse mai posseduto, l’anello. E siccome a Matisse i due quadri erano necessari, erano felici.”
Mentre andavo in pellegrinaggio a casa di Hemingway – 74 rue Cardinal Lemoine – pensavo che, se ci si vuole ossessionare a dovere, la Parigi d’inizio Novecento fa scattare la sua trappola impietosa, superba: Hemingway, Picasso, Matisse, Sylvia Beach e la sua “Shakespeare & co.”, Ezra Pound, Braque e, naturalmente, Gertrude Stein, che fa da madrina a tutti quanti.
(“Midnight in Paris” l’abbiamo visto, e “Festa mobile” l’abbiamo letto?)
“Picasso era in quel tempo un bel lustrascarpe. Era fosco e sottile, vivacissimo coi suoi occhi che parevano laghi, e un fare violento senz’essere villano. Sedeva a tavola accanto a Gertrude Stein e Gertrude Stein prende un pezzo di pane. – E’ mio questo pezzo, – dice Picasso, strappandoglielo con violenza. Lei scoppiò a ridere, e la faccia di Picasso s’allungò. Così cominciò la loro intimità.”
Davanti alla porta di casa di Hemingway – son arrivat…fiuh..manca il fiato…oddi… – oggi dipinta di un ipnotico blu-Matisse (sopra di me una lapide abbottonata recita: “Qui visse ecc. ecc.”), mi domando: che accidenti ci faccio qui? Esistenzialista, come domanda. E anche un po’ stupida, dal momento che potevo almeno pormela prima di inerpicarmi su per la salita.
Davanti a questa porta comincio a sgranare i nomi dei grandi come biglie di un rosario: Picasso, Matisse, Juan Gris – ora pro nobis. Rousseau, Sherwood Anderson, Jean Cocteau – ora pro nobis. Mi son pure portata dietro “Autobiografia di Alice Toklas” per leggerne qui alcuni passi, cerimoniosamente, lo sguardo ubriaco e il cuore che fa mimimi. Ripenso agli aneddoti in esso raccontati – dal banchetto organizzato a Montmartre per festeggiare Henri Rousseau al pasticcio che Ezra Pound combinò in rue de Fleurus: aneddoti che Gertrude Stein ci consegna non con il romanticismo con cui quel gattaccio sornione di Hemingway scrisse “Festa mobile”, ma con ironia frizzantina – verso se stessa, e soprattutto verso i suoi beniamini – e con dolcezza materna.
Non racconta in prima persona ma fingendosi Alice, Alice Toklas, la compagna della sua vita: e così modula il tono di voce del narratore sulle note e suoi modi di fare tipici di Alice – tonti, pieni di meraviglia, civettuoli.
“La prima cosa che avvenne, una volta di ritorno a Parigi, fu l’arrivo di Hemingway con una lettera di presentazione di Sherwood Anderson. Gertrude Stein e Sherwood Anderson sono molto divertenti quando parlano di Hemingway. Hemingway era stato formato da loro, e tutti e due erano insieme un poco fieri e un poco vergognosi del frutto dei loro spiriti. Riconoscevano che Hemingway era un furfante. – Assomiglia, – ripeteva Gertrude Stein, – a quei barcaioli del Mississippi che descrive Mark Twain. – Ma che libro, – riconoscevano tutti e due, – che gran libro sarebbe la storia vera di Hemingway; non le confessioni che scrive lui, ma quelle del vero Ernest Hemingway. Sarebbero per tutt’altro pubblico da quello di adesso, ma che cosa stupenda. Disgraziatamente è una storia che non racconterà mai.”
Che ci faccio allora qui? (Mi son spostata in Place du Tertre, in realtà, perché con un éclair mascarpone-cioccolato si ragiona più lucidamente) Ci faccio cose serie. Perché ci lasciamo ipnotizzare così tanto da Parigi, dai circoli di artisti, dalle loro vite quotidiane? Perché vogliamo sapere come vestiva Picasso, dove abitava Hemingway, cosa mangiava Matisse? Perché siamo dei fanatici. Fanatici ossessionati da quell’ossessione che chiamiamo Pittura, Letteratura, Fotografia: che per qualcuno possono, sì, essere divertimenti; ma per altri possono anche essere cose reali, e serissime.
E allora tanti auguri a chi tanti amanti ha: vogliamo gli uomini, in carne e ossa e difetti e abitudini, dietro i grandi manifesti. Uomini che sono più a nostra misura, rispetto ai grandi manifesti – come il segreto dietro un trucco di magia. E Gertrude Stein – la più titolata a farlo – ce li serve qui su un piatto d’argento (con l’aiuto del nobilissimo Cesare Pavese che, per noi, la traduce): signori Fanatici, prego da questa parte, il vostro tavolo è pronto.
Titolo | Autobiografia di Alice Toklas
Autore | Gertrude Stein
Casa editrice | Einaudi
Anno | 2010 (1933)
Pagine | 270