Lincoln nel Bardo | George Saunders
Il Bardo non è solo ciò che trasforma ma soprattutto ciò che cattura. Quando si è catturati da qualcosa, in quell’attimo si è nel Bardo.
(Libro dei morti tibetano)
Gli americani, dove vanno gli americani quando muoiono?
Bastano pochi minuti di doccia fredda la mattina e ti rendi conto che tutto quello che hai sognato sembrava limpidissimo nel dormiveglia e invece non ha proprio alcun senso, a mente lucida. Decisamente sconfortante, succede a tutti.
Una delle scorse notti, per esempio, ho sognato di partecipare a una festa rumorosissima nella quale si celebrava l’enorme successo del primo romanzo di George Saunders. La festa non era per nulla un granché, come al solito, ma il buffet – il buffet era meraviglioso, meraviglioso nel senso più caleidoscopico del termine. Meraviglioso fino a che faccio per addentare con la solita delicatezza – dovuta più che altro all’imbarazzo della situazione che in realtà mi imbarazza grossomodo come ogni altra situazione – una scorza di limone caramellato delle dimensioni di una suola di All Stars n° 40-41. Faccio per addentarla e la scorza caramellata sento che è di plastica. Tutto ciò che il buffet può offrirmi, in realtà, è di plastica – lo sento anche solo al tatto in un breve momento epifanico. Niente di ciò che il buffet mi fa vedere può riempirmi lo stomaco.
Ho decisamente rivalutato il latte di riso, la mattina dopo. Ma è stato comunque parecchio deludente non capire ancora una volta il messaggio.
Il 20 febbraio del 1862 il terzo e penultimo figlio undicenne del presidente Abramo Lincoln, Willie, contrae la febbre tifoide e muore – amava stare ore e ore sul suo pony in giardino senza cappotto anche quando faceva troppo freddo, il padre non lo sgridava mai-mai e d’un tratto il raffreddore, poi la febbre.
Si dice che, la notte dopo il funerale, Lincoln padre – un uomo altissimo, trasandato, barcollante, tutto gomiti e ginocchia e con gli occhi più tristi mai visti in un essere umano, come sappiamo tutti – si rechi nella cappella a scoperchiare senza alcuno sforzo, nonostante la magrezza preoccupante, la bara del figlio per aggiustargli ancora una volta il ciuffo scuro e ribelle di capelli e, soprattutto, riabbracciarlo. Si dice anche che il corpo congestionato – come i suoi polmoni, d’altraparte – di Willie rimanga impassibile e rigido durante tutto l’abbraccio. L’anima ormai persa di Willie, invece, non rimase per nulla impassibile.
L’anima di Willie Lincoln, anzi, era rumorosissima mentre osservava quella visita e quel maldestro ricongiungimento a senso unico, ma Lincoln padre non poteva assolutamente sentirla. Non era quello il momento. Non si era spinto ancora oltre, Willie non gli era ancora passato attraverso.
Ma il presidente è entrato in quel buio sepolcrale come un pellegrino che avanza in un deserto inesplorato Tom sapessi che tristezza.
È l’anima che George Saunders fa parlare. L’anima di Willie Lincoln e una schiera di originalissime anime in pena scombussolate dall’arrivo del piccolo vivace Willie – verrebbe da dire così senza pensarci “una vera botta di vita”, ma forse è inopportuno – che osservano la visita di Lincoln padre mentre sono ancora dondolanti in un limbo di incoscienza e incertezza a proposito della loro comune condizione. Si trovano in un limbo – un non-luogo, una hall macabra e affollatissima – perché non sanno. Non sanno di essere morti. Bizzarro, ricordano tutta la loro vita, non fanno che dartela in pasto boccone dopo boccone, bocconi amari, bocconi sconci, bocconi commoventi, bocconi dolcissimi, bocconi vergognosi, bocconi violenti, ma non ricordano assolutamente di essere morti. Non riescono a lasciare andare. Non riescono a mollare la presa. Chiedono il dono più prezioso, chiedono tempo. Altro tempo.
Le chiassose anime dei morti parlano ininterrottamente perché le anime hanno sempre un impellente bisogno di confessarsi illudendosi che ancora non sia troppo tardi non tanto per espiare le proprie eventuali colpe ma piuttosto per avere un pubblico al quale dare in pasto le proprie esuberanti gesta quotidiane. Ancora non sanno di condividere tutti un segreto e una sorte comune, prontissima ad azzerare tutto ciò che c’è stato prima.
Ci aveva magistralmente provato Edgar Lee Masters, con le decine di epitaffi di Spoon River, a dare voce ai morti americani. Ma altri esempi così espliciti e coraggiosi mancano perché l’America è giovane e non ha alcuna familiarità con i rituali mortuari, non ha robuste radici ben piantate nell’antichità come l’Europa. Non ha i pellegrinaggi danteschi. Non esisteva ancora, dunque, un libro americano dei morti. Saunders è un pioniere, in questo senso. Un traghettatore di anime, anime chiacchierone, inquiete, traballanti.
Il romanzo, nella sua staticità – sia di luogo, tempo, che di fatti narrati – riesce a essere vivace, coloratissimo come gli altari della festa dei morti in Messico. La narrazione polifonica non lascia al lettore neanche un minuto per prendere fiato, le battute sono spesso brevi e scandite a ritmi veloci. Lapidarie (m’è scappata, scusate).
Un dialogo ininterrotto tra le anime dei defunti unito a citazioni di fatti di cronaca e biografici – più o meno autentici – inserite in un romanzo ambientato interamente in un cimitero, nell’arco di una sola notte.
L’eccesso di comunicazione tra i morti, si capisce, sottolinea l’assenza di comunicabilità con l’altra parte delle anime, quelle dei vivi, non più raggiungibili. Padre e figlio comunicheranno, certo, ma per poi perdersi ancora e per chissà quanto tempo.
La presa di coscienza e la rassegnazione renderà liberi subito dopo l’ultima definitiva confessione. Ci sarà una luce abbagliante. Un po’ di luce abbagliante per tutti quanti e indumenti vuoti a testimonianza di ciò che c’è stato.
Ma cosa ha detto, COSA TI HA DETTO, Ha detto che sono morto.
Come è potuto succedere?
Aggiustala, aggiusta questa cosa che è successa.
Padre, un bicchiere prima che io vada?
Padre, un bicchiere prima che io vada?
Padre, un bicchiere prima che io vada?
Titolo | Lincoln nel Bardo
Autore | George Saunders
Anno | 2017
Editore | Feltrinelli
Pagine | 347