Amare a occhi chiusi significa amare come un cieco. Amare a occhi aperti forse significa amare come un folle: accettare a fondo perduto. Io ti amo come una folle.
Fuochi – o della passione. Gioie violente destinate a fini violente; notti insonni a stringersi nella paura dell’incertezza di ogni domani – aggrappati l’uno all’altra con le dita dei piedi ancorate alle caviglie come delle mollette, per non permettere al vento, al tempo, di strapparci via.
Fuochi – o dell’assenza. Mancanza asfissiante come strozzarsi, come essere trasparenti come non esistere, come non essere mai esistiti. La distanza è un telefono che squilla a vuoto. Una voce da sconosciuto, da straniero in terra straniera – paura di essere dimenticati, ma forse più di ogni cosa, di abituarsi a dimenticare. Di abituarsi a non sperare.
Fuochi – o degli specchi. Pagine che a seconda di chi legge cambiano forma: il poeta sei tu che leggi. Parole come déjà-vu, ci passi gli occhi per la prima volta e pensi di averle già sentite, forse di averle già provate, come una preghiera ancestrale in una lingua preistorica, universale, che ci è stata sussurrata come una nenia quando eravamo ancora tutti nelle pance delle nostre mamme – Yourcenar una sibilla che legge la sorte nel volo degli uccelli.
Nell’introduzione a questo libretto ibrido, metà diario, metà raccolta di racconti mitologici, Marguerite Yourcenar afferma che l’insieme di scritti che compone Fuochi è frutto di una crisi passionale, e che in quanto si parla di amore, puro, dolorosissimo e non corrisposto, niente di ciò che ha scritto è in verità commentabile, e che anzi, quando lo scrisse, non voleva che venisse letto da nessun altro (la prima frase è proprio: ‘Spero che questo libro non venga mai letto’).
Io me lo sono portato dietro negli ultimi dieci anni della mia vita, l’ho sfogliato da parte a parte finché la colla del dorso non si è un staccata e adesso la copertina, quando lo apri, pende un po’ monca. Eppure, intenta a scriverne una recensione, mi sono dovuta arrendere al fatto che questo libro è davvero incommentabile. Ho avuto difficoltà serissime, e giuro che io non sono una a cui di solito mancano le parole. La verità è che Fuochi non si legge come un libro normale, con dei personaggi e una trama e uno scopo e un messaggio. Ha una natura più ancestrale, onirica – riemergere dalla lettura di Fuochi è come svegliarsi di soprassalto con quella strana sensazione di un ricordo sfocato, senza sapere se è successo davvero, o se era solo un sogno.
I fuochi sono pillole di diario di una Marguerite Yourcenar trentaduenne, innamorata perdutamente del suo editore, André Fraigneau, che a sua volta è innamorato di altri uomini. Le prose liriche, quasi aforistiche, che compongono Fuochi sono l’archetipo dell’amore respinto, scritte sulla pietra all’alba di ogni donna che abbia amato per la prima volta e poi per sempre. Pezzi di cuore sparsi non con la condivisione generosa dei poeti, ma con la necessità rabbiosa dei cuori spezzati, perché tacere uccide. Parole che sembrano essere strabordate dalle sue mani come un bicchiere stracolmo, alternate a brevi monologhi mitologici, ambientati in uno spazio-tempo onirico senza età. La Yourcenar scomoda i grandi personaggi della leggenda greca come fossero i suoi amici immaginari; gioca con loro per dare voce al proprio quasi capriccioso espressionismo barocco – una voce squisitamente ornata, dall’eco universale, che non lascia in pace nessuno. Niente è più personale di un mito, come nessuna conversazione è più intima di quella sussurrata in una stanza affollata, con le labbra che quasi si sfiorano. Unire stralci di diario a stralci di mito è forse la ricomposizione più fedele di ogni amore non corrisposto.
La sua passione per André scivola dalle labbra di Clitennestra, Fedra, Saffo, Patroclo, Maria Maddalena – alternate alle proprie labbra, le più oneste, le più invincibili. La Yourcenar si strappa il cuore con precisione chirurgica, lo poggia sul tavolo con disinvoltura – poi butta giù un paio di pagine su Achille, senza che nulla sia mai fuori posto. Non è l’Achille di Omero, però: è l’Achille rimodellato da secoli di reinterpretazioni letterarie, ed è l’Achille in cui la Yourcenair si rivede, un costume che indossa per guardare il proprio dolore da diverse angolazioni, o forse per elevarlo a una qualche forma di fede nella trascendenza: sacrificare il proprio orgoglio in nome dell’amore assoluto vince sul rifiuto, vince sulla morte. La Yourcenar cerca asilo nella classicità, in monologhi ornati di giochi retorici preziosissimi, intrecciando abilmente parole come Penelope che tesse con dita esperte, senza neanche guardare.
Sotto queste forme classiche, statuarie, pesanti come un cuore che batte nel silenzio, c’è una giovane donna, innamorata di un uomo che non vede il suo corpo – non è attratto dalle sue forme. L’amore sterile della giovane Marguerite è un grido strozzato, più doloroso della morte, un annullamento del corpo che trafigge come un pugnale il cuore di questo libretto straordinario, e di tutti noi. Tutto torna a questo: il corpo di una donna, il cuore di una donna, il desiderio, come una corda tesa in mezzo al ventre di una donna, la solitudine, come un’ombra dietro le spalle di una donna. Il sacrificio, il più nobile, di donare amore senza aspettare nulla in cambio, come le mani di una donna, aperte, tese.
E tu te ne vai? Tu te ne vai?… No, tu non te ne vai: io ti trattengo… Mi lasci nelle mani la tua anima come un mantello.
Emanuela Anechoum