Questa cosa dell’andare a funghi
Solo aghi di pino e silenzio e funghi
buoni da mangiare, buoni da seccare
da farci il sugo quando viene Natale
Come spiegare il silenzio e la quiete infinita che si provano in un giorno d’autunno, immersi nella faggeta, cercando con finta noncuranza un porcino?
È l’estasi dello spirito, è la brama di setacciare il bosco passo per passo, cercando qualcosa che forse è lì e che potrebbe capitarti davanti al muso mentre cammini o ti allacci uno scarpone, oppure potrebbe non essere nemmeno spuntato, fregandosene della tua levataccia e dei minuti interminabili di mal di macchina sulle strade di montagna.
È una passione insana che ti porta in paesi con tre case, che senti famigliari come se ci fossi cresciuto in una vita precedente. Bar mitici che vendono i permessi mentre fuori ancora c’è buio, con un freddo becco. Locande con insegne luminose da autopista e gestori che ti danno consigli volutamente fuorvianti da ascoltare con cordialità e diffidenza, mentre mangi la tua brioche.
È un mondo a parte, non vecchio ma ancestrale, un tempo antico e moderno in cui il bosco ti fa dei regali e tu devi essere molto bravo a trovarli, una specie di caccia al tesoro senza indovinelli dove devi solo macinare passi e guardare bene tra le foglie. E controllare bene perché forse un porcino c’è.
E se ce n’è uno spesso lì vicino ce n’è un altro.
Oppure devi cercare ancora un po’ perchè forse, dietro a quella curva, c’è una mazza di tamburo, o dei finferli, o delle russule o delle finferle, o le splendide trombette dei morti.
Non c’è niente di meglio da mettere nel risotto che la polvere nera delle trombette dei morti essiccate.
Non c’è davvero niente di più buono del cappello della mazza di tamburo impanato, mangiato in città una sera, ricordando una giornata nei boschi.
E poi, è vero, ci sono mille funghi non commestibili o tossici, ma quanto solo belli? Quanto sono fotogenici? In che punti assurdi crescono, a volte, e che colori incredibili hanno? Sembra davvero un mondo magnifico di piccoli gioielli colorati che spuntano per un tempo limitato in un angolino di universo e aspettano solo di essere visti, fotografati, denominati, ricordati…
Andare a funghi non ha niente a che vedere con l’escursione, non c’è sentiero, non c’è via.
È facile perdersi, finire nel paese a valle e farsi riportare su in macchina da uno strano hippie sconosciuto.
Se giri con gente che se ne intende è un continuo alternarsi di silenzio e veloci chiamate per controllare di esserci tutti, e poi ogni tanto qualcuno esclama qualcosa in dialetto, in latino, o in italiano. Perché nel bosco ognuno li chiama come vuole, i funghi.
In questo viavai di uomini, cesti, bastoni e speranze di raccolta, i faggi e i castagni se ne stanno silenziosi.
Per loro non siamo diversi dai cinghiali, dai caprioli, dalle bisce e da tutte quelle meravigliose bestie che come noi fanno provviste prima dell’inverno.
È un mondo in cui ci si sporca, in cui i vestiti tecnici si possono lasciare a casa per far spazio a camicione, giacche, vecchi pantaloni. Un mondo in cui i topolini possono entrarti in tasca e i rami nei capelli, dove inseguendo una cosa che alla fine era una foglia ti riempi di graffi e lividi, dove per fare una foto a una colonia di funghetti o a un cerchio delle streghe finisci spesso sdraiato sul miglior tappeto possibile, quello di foglie di faggio o di castagno.
Impossibile non portare a casa, In testa, nella macchina e nei vestiti, foglie, fango e a volte qualche ragnetto. Ma prima ancora, il bosco ti segue nel piccolo ristorante appenninico che ti accoglie a fine giro con il caldo della sua stufa, con le sue porzioni abbondanti, i suoi sughi, i suoi intingoli, i suoi vini rossi. E ti prende come sei, raccoglitore vincente o sconfitto, spesso infreddolito, spesso affamato, sicuramente sporco.
In cinque minuti è come se le pareti ti abbracciassero, come se il mondo tornasse in ordine. Mentre mangi e pian piano ti riempi di quel calore asciutto e antico inizi a sognare di rimanere lì per sempre, tanto si può vivere di taglio di legna e raccolta di funghi, no?
No. Non si può
Vedo una chiazza molto estesa di puntini neri che emergono dalle foglie.
Ci avviciniamo. “Non sembrano neanche dei funghi, Accidenti quanti sono.
Questi si che devono essere velenosi.” “Non capisci proprio niente.
Sono buonissimi invece. Non mi avrai mica preso per una dozzinale
cercatrice di porcini?” “Be’ i porcini sono squisiti”. “Anche questi.
Solo che non lo sa nessuno. Si chiamano trombette dei morti”.
Li raccogliamo uno a uno, facendo attenzione a non romperli
perché sono molto delicati. Giovanna conosce anche il loro nome latino:
Craterellus cornucopioides. Così brutti, così neri,
non si distinguono dalle foglie in decomposizione delle quali si nutrono.
“Mi ha insegnato a riconoscerli mio padre. Questi e un sacco di altri funghi poco noti.
Senti che profumo… Li metti a seccare e diventano leggerissimi e friabili.
Poi li sbricioli e ottieni una polvere nera, fantastica per insaporire qualsiasi cosa.
I fungaioli li chiamano “tartufo dei poveri”.
Francesco Bianconi, La resurrezione delle carne.
Grazie per le gite e i preziosi insegnamenti al Gruppo Micologico Naturalistico Cremonese.
Brava…bel post…nel bosco ci si va per perdersi e ritrovarsi.. ciao
Grazie mille Andrea!