Freaks and geeks. Ezra Furman è vivo e lotta insieme a noi
all the world is rising up like vomit
filling up my ugly little mouth
there’s a sickness deep inside my eyeball
got to find that tool to cut it out
Indietro veloce. Le sei del pomeriggio del primo giorno del Primavera Sound 2018: fa un caldo orrendo al Ray-Ban stage e il sole picchia forte sulla spianata che guarda in faccia il mare. Non importa: tocca stare nelle prime file per poter godere appieno del grande circo rock’n’roll che va allestendosi sul palco; chitarre, basso, batteria, pianoforte, sax disposti in attesa delle strepitanti canzoni di Ezra Furman, uno dei più storti songwriter in circolazione.
Parte I Wanna Destroy Myself – una marcia trionfale, giusto un attimo prima che si sfasci tutto – e il concerto smette subito di essere un semplice concerto. Davanti a me, Furman si lancia in un filotto di brani da Transangelic Exodus con la furia iconoclasta del punk e di chi voglia strapparsi di dosso la pelle a forza di urla laceranti per guardare cosa ci sia sotto. Perfino la cover di Hounds Of Love di Kate Bush viene affettuosamente fatta a pezzi davanti ai nostri occhi sbarrati.
Vedete: a un certo punto, durante un percorso di psicoterapia che va avanti da una decina di mesi, mi sono reso conto che, mentre raccontavo alla dottoressa come mi sentissi, davanti a me – stesi sul tavolo – stavano frammenti delle mie emozioni; ancora da codificare, ma ben disposti, chiari, numerabili. Come quando si torni a correre dopo tempo e si scopra l’esistenza di muscoli che si erano sempre ignorati; erano sempre stati lì, ma non lo sapevi.
Bene. Ezra Furman, in quel set di tre quarti d’ora, mi ha dato l’esatta sensazione di uno che finalmente riesca a sputar fuori pezzi di sé e, attraverso di essi, finalmente vedersi; davanti a quello spettacolo, il suo stesso sguardo è terrorizzato oltre che ansioso, eccitato. Come a dirci, indicandosi il cuore: “è tutto un disastro, qui dentro; ma se è questo il disastro che ho a disposizione, ne tirerò fuori meraviglia”.
tonight you’ve got fire in your bloodstream
if your frail human heart is still pumping
and make this one night you’ll remember
a note you deliver by hand
A diciotto mesi da quell’uragano, Furman è tornato con un album al fulmicotone: si chiama Twelve Nudes, dura appena ventisette minuti e, per dirla col Guardian, somiglia al “suono di qualcuno che esplode”. Non il migliore della sua discografia – quello è ancora Perpetual Motion People – ma comunque un tassello importante di una storia artistica che ormai vale altrettanto. Soprattutto, un altro ascolto necessario.
Non c’è tempo per le sottigliezze, qui. Quasi non c’è tempo nemmeno per il divertimento rock’n’roll, visto che piano e sassofono sono spariti del tutto per lasciar campo libero a chitarre da due soldi quasi sempre distorte male (stile primi Replacements), ritmi veloci e una voce usata come un lanciafiamme. Un album che pare fatto apposta per deludere le aspettative di chi lo avesse scoperto con un lavoro levigato ed epico come il precedente.
Ma niente paura: se conoscete Furman, saprete anche che le sue frecce migliori sono schiettezza, onestà e ganci melodici memorabili. E in Twelve Nudes proprio non mancano.
all my friends are writing their resumes
my responsible friends are applying for jobs
but me, I was considering ditching Ezra, and going by Esme
baby, would you find that so odd?
Che poi, a guardar bene, non è vero che questo disco sia tutto uguale.
Vero è che si parte col botto, piede sull’acceleratore di Calm Down e ampli a undici (letteralmente, il suono isterico di un attacco di panico). Ma poi Evening Prayer abbassa i giri per farsi fervente invito alla protesta: la musica, nel testo, è un catalizzatore di energie positive simile alla preghiera, strumento necessario ad abbattere muri e ingiustizie; il suono, invece, è quello che i Japandroids provavano a tirar fuori da Near The Wild Heart Of Life, alle cui canzoni però mancava un ingrediente chiave di cui Furman ha invece il frigorifero pieno: la fotta.
Nemmeno i pugni alzati, a dirla tutta. Provate a non levarli al cielo quando Trauma esplode da casse troppo piccole per contenerla (“cos’è che costringe un uomo a prendere un martello e a sfondare tutte le vetrine di un negozio aziendale?”), a seguire qualche vaga considerazione sul conflitto israelo-palestinese (Rated R Crusaders: non proprio un saggio sull’argomento, ma siamo a posto così) e appena prima del riffettino irresistibile di Thermometer.
Ed Ezra avrà pure in parte rinnegato la definizione di gender-fluid che si era dato qualche anno fa, eppure la zuccherosissima prom ballad I Wanna Be Your Girlfriend o la sua drammatica b-side Transition From Nowhere To Nowhere sono due splendidi esempi di pop esistenziale in cui la purezza delle melodie serve a esorcizzare la sofferenza della disforia di genere.
Il trittico finale è un’altra bella botta, forse l’apice di un lavoro bruciante, con il power-pop cristallino di My Teeth Hurt (“la disforia di genere è come un lieve mal di denti che non fa male abbastanza da farti andare dal dentista, specialmente perché non hai l’assicurazione e il dentista non ti prende sul serio”, scriveva su Twitter) e In America e il finale liberatorio – pure un po’ rassegnato e fatalista, parte importante di liriche altrimenti barricadere – di What Can You Do But Rock’n’roll.
Si arriva alla fine frastornati e felici. Davanti a noi, Ezra Furman è nudo come mai prima: lo sguardo di chi, dopo aver fatto tabula rasa, non sa bene dove andare ma sembra proprio ansioso di andarci.
Artista | Ezra Furman
Titolo | Twelve Nudes
Etichetta | Bella Union
Durata | 27’