Flatlandia | Edwin A. Abbott
Il reverendo Edwin Abbott fu un grande intellettuale del XIX secolo. Dopo essere stato rettore della City of London School per un ventennio circa, pubblicò moltissimi libri dei generi più diversi: manuali scolastici, studi eruditi di testi sacri, trattati teologici. In tutto, più di quaranta testi. Eppure l’unico baluardo che ha evitato che il suo nome si perdesse nell’oblio del tempo è un breve racconto, Flatlandia, che poco o nulla sembra avere a che fare con il resto della sua opera. In realtà, come vedremo, esso è il prodotto perfetto di un letterato che fu prima di tutto un insegnante – colui che riesce dunque a tradurre concetti astratti in qualcosa di tangibile e di più comprensibile.
Flatlandia parla di confini, e paradossalmente confini pare non averne: troppo anguste sono le caselle dei generi letterari per tentare un posizionamento (è un racconto fantastico? Fantascientifico? È forse matematico, o filosofico? Un romanzo distopico?); ed anche le letture che se ne possono trarre sono varie e molteplici – come in un gioco di scatole cinesi scorgiamo una critica ironica alla sua società contemporanea, quella vittoriana, oltre che un pungolo nei confronti della filosofia più razionale e positivista che riduce la realtà solo a ciò che è materiale.
Immaginate – non risulterà particolarmente difficile – un mondo in cui esistano soltanto due dimensioni, lunghezza e larghezza: gli abitanti di questa terra non hanno alcun intendimento del fatto che possa esisterne una terza, poiché tutto ciò che vedono o di cui abbiano mai avuto percezione mediante i sensi è piatto; completamente ed inesorabilmente piatto.
L’Abbott spende molte parole per descrivere dettagliatamente come funziona Flatlandia e come vivono i suoi bidimensionali abitanti, quasi a volerci abituare a pensare anche noi “in due dimensioni”: tutto questo con l’intento di suscitare magari qualche sorpresa nel (tridimensionale) lettore quando in quel mondo, nel primo giorno del duemillesimo anno di quell’era, irrompe una Sfera. Tale straniero solido e tridimensionale penetra nella casa del Quadrato protagonista (professionista e gentiluomo, secondo la rigida ripartizione in classi sociali in uso a Flatlandia) per annunciare l’esistenza appunto di una terza dimensione, l’altezza: nessuno è disposto ad accettare e a credere a tale verità, e pure il nostro Quadrato non fa eccezione; sino a quando la Sfera si troverà costretta a passare da una Rivelazione ad una Dimostrazione, e a portare con sé il Quadrato in Spacelandia.
Triste destino seguirà per lui, finalmente persuaso delle forme solide (“verso l’Alto, non verso il Nord!” gli ripete come un mantra la Sfera per abituarlo all’idea di altezza): i suoi tentativi di diffusione tra i Flatlandesi di ciò che aveva imparato a conoscere, un mondo superiore al loro abitato da esseri superiori, verranno neutralizzati per sempre.
Dei meriti scientifici di questo racconto non mi è dato trattare – seppure una vaga considerazione su quanto fosse arguta per i tempi in cui fu scritto la considerazione che fosse possibile una quarta dimensione così come era possibile la terza si può ben fare; sicuramente però non si può ridurre Flatlandia ad un trattatello divulgativo di matematica e geometria.
Con tutto lo sforzo di disegnarci un mondo plausibile e che abbia regole logiche, Abbott compone, come si diceva, una tagliente satira della società umana, vittoriana in particolare (ma non solo): il microcosmo che finisce per ricreare è tale perché chiuso, sclerotizzato nella propria organizzazione e del tutto soddisfatto di essa. A nessuno è permesso disturbare un idillio immobile fatto di rigida suddivisione in “caste” a seconda del numero di lati (o meglio, dell’ampiezza dei propri angoli), di ascesa sociale quale unica aspirazione collettiva (in realtà controllata e riservata a pochissimi), di mancanza del concetto di libertà personale, di leggi inumane. In una parola: di ristrettezza di vedute, in cui gli abitanti di Flatlandia si crogiolano.
Anche la Sfera, tuttavia, che pure è rivelatrice e portatrice di nuovi orizzonti, si dimostra altrettanto ottusa all’idea che esista una Quarta dimensione, suggeritale da un Quadrato ormai in estasi per le scoperte fatte. Ed è qui che si scorge infine l’insegnamento, che, come sempre accade quando è geniale, viene impostato in forma di domanda, per stimolare la nostra intelligenza: noi che leggevamo di umanità e mondi inferiori e brancolanti nel buio, incapaci di afferrare verità elementari, crederemmo o saremmo disposti a credere ad un mondo a noi superiore? Ad una Quarta dimensione impossibile da cogliere con i sensi a nostra disposizione?
Non ci si aspetti di trovare nel libro una risposta, una soluzione univoca. Per Abbott il piacere è consistito solo nel porre la domanda.
Ginevra Ripa
titolo | Flatlandia
autore | Edwin Abbott Abbott
editore | Adelphi (XX ed.)
anno | 2012
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