Filippine | Percorrendo Palawan
Le capitali asiatiche sono vigliacche, talmente brutte che fanno il giro e diventano belle. Tutto pare uscito da un set cyberpunk degli anni ’80: ammassi caotici di carne dove baracche di lamiera sorgono accanto a grattacieli di cristallo, intrecci di strade che s’incrociano su più livelli, un traffico endemico, cavi elettrici attorcigliati inorno ai pali della luce alla faccia di qualsiasi norma di sicurezza, gente che vive per strada, scimmie, spazzatura.
Bangkok, Giacarta, Hanoi, Kuala Lampur. Manila non fa eccezione. Per fare 3 Km (aeroporto-albergo) ci vogliono 40 minuti perché il traffico va oltre qualsiasi immaginazione, sembra di essere un globulo rosso allo svincolo dell’aorta nell’ora di punta. I tuk-tuk (ibrido asiatico tra il taxi e l’Apecar) sfrecciano come mosconi indaffarati da ogni lato e attraversare la strada è un’epopea. Gli incidenti stradali sono all’ordine del giorno eppure non così tanti come sarebbe lecito aspettarsi…come ogni cosa qui del resto.
I parametri occidentali che bene o male ci bastano per classificare, giudicare e descrivere le Americhe o l’Africa, qui sono inapplicabili e rendono l’Asia una spettacoalre equazione irrisolta. Avete presenta la storia del calabrone che vola nonostante un rapporto apertura alare/peso sfavorevole? Ecco, l’Asia è così: funziona a livello pratico; secondo quello teorico dovrebbe ancora essere ferma ad un incrocio a litigare su chi debba avere la precedenza.
Ma la meta del viaggio è Palawan, l’emarginata tra le isole dell’arcipelago filippino. Più vicina al Borneo che alla capitale, Palawan si riposa stretta e lunga (600 x 40 km) ai margini dell’Oceano Pacifico. Dopo la notte in Manila atterriamo a Puerto Princesa e da lì procediamo per Sabang, un minuscolo villaggio che trae l’unica ragion d’essere dalla vicinanza con uno dei due siti UNESCO dell’isola: il Parco Nazionale del Fiume Sotterraneo (l’altro è il Reef di Tubbataha).
Per deformazione professionale non sono un fan delle attrazioni naturalistiche, tendo sempre a notarne i nei piuttosto che i pregi. Eppure qui una parvenza di amministrazione intelligente seda la mia intransigenza: numero limitato di visitatori, personale qualificato, un certo rispetto per l’ecosistema (sembrerà strano, ma non è scontato che in un Parco Nazionale si rispetti l’ambiente). Solo una minuscola zona del parco è infatti accessibile e sempre scortati da un ranger-barcaiolo che spinge una canoa lungo il fiume che dà il nome al parco, dentro le viscere della terra. La caverna, immensa sopra le nostre teste, somiglia ad una cattedrale – non a caso molte delle formazioni rocciose hanno nomi di rimando biblico: La Sagrada Familia, La Virgen, El Angel – e i pipistrelli che volano ovunque ne sono i chierichetti che recitano la loro ultrasonica messa.
Mentre eravamo dentro le grotte ha iniziato a piovere (stagione secca un par di p…) ed è sotto un temporale sempre più simile ad un tifone che la mattina dopo ci spostiamo a El Nido, all’estremo nord dell’isola. Diciamolo subito così ci leviamo il pensiero: El Nido sarebbe un posto bellissimo se non fosse per El Nido.
Meta turistica fin troppo famosa, una quantità eccessiva della peggiore categoria di turisti si riversa in una main street soffocata da osceni negozi di souvenir, scialbi ristoranti e squallidi bar – talmente anonimi che potremmo stare a Brighton, Ischia o Rodi e non percepiremmo la differenza.
In realtà basta allontanarsi di pochi metri verso l’interno per trovare luoghi speciali, come ad esempio il Bulalo Plaza, decisamente il miglior ristorante che abbia sperimentato durante questo soggiorno. La cucina filippina è piuttosto semplice: pesce grigliato, riso, un po’ di pollo – scordatevi la profusione di sapori della terraferma – ma qui potete assaggiare qualcosa di più intrigante come il sisig, il bulalo (misteriosamente simile alla cassoeula milanese) e, mi dicono, degli ottimi calamari al nero.
Ma, cucina a parte, il motivo per cui El Nido rimane l’attrazione principale dell’isola è l’antistante baia di Bacuit: un arcipelago infinito di isolotti, faraglioni e scogliere di calcare nero che emergono dall’acqua cristallina. Lasciandoci alle spalle il disagio umano, saliamo su una barca* e iniziamo a goderci lo spettacolo naturale.
Quattro itinerari diversi vengono offerti dalle varie agenzie: A, B, C, D…fantasia. Farne tre è la norma ma onestamente penso anche due possano bastare (A e C i migliori). Incuranti delle onde, per tre giorni ogni mattina salpiamo e una barchetta ci scarrozza tra un isolotto e l’altro: Small Lagoon, Blue Lagoon, Paradise Beach, Hidden Beach, Snake Island…non fatevi scoraggiare dai nomi commerciali; sono mete turistiche, è chiaro, ma lo spettacolo che vi si offrirà vale un po’ di folla. Avviatevi di buon’ora e se siete fortunati sarete i primi a sbucare a Secret Beach – accessibile solo dopo esservi infilati in uno stretto cunicolo nella roccia (“il buco del c**o della scogliera” cit.) – e, prima che i turisti coreani arriveranno, potrete essere i padroni del paradiso.
Dopo la sosta a El Nido è tempo d’invertire la rotta del nostro viaggio e ci spostiamo a Port Barton. Port Barton è l’antitesi di El Nido: modesta, rilassata, quasi schiva laddove l’altra era caciarona, esagitata e troppo impegnata a fare qualcosa per godersi davvero il momento.
Anche qui avrete la possibilità di visitare vari isolotti ma data l’oggettiva superiorità paesaggistica dell’arcipelago di El Nido, pure godersi la spiaggia all’ombra di una palma è un’opzione valida. Se invece siete appassionati di snorkeling allora i reef di Port Barton offrono più varietà rispetto a quelli di El Nido e potrete passare una giornata tra pesci pagliaccio, madrepore e tartarughe marine.
A Port Barton la vita scorre semplice, c’è poco da fare e nessuna fretta di farlo. Un’umanità diversa da quella che affolla El Nido dà linfa vitale a questo pacifico e sonnacchioso villaggio di pescatori e cacciatori di perle. Backpackers, giramondo e vagabondi, gente per cui una birra e un tronco sulla sabbia bastano per fare una serata, si riuniscono in un paio di chiringuitos con musica dal vivo (speciale il reggae bar sulla spiaggia) o nei ristoranti in riva al mare. Non ci sono nemmeno i bancomat – che se lo chiedete a me non è male come criterio per valutare la bellezza di un luogo.
È uno di quei posti in cui è impossibile non essere in pace con il mondo. Si ritrova l’armonia e la rilassatezza e, se non si ha paura di sentire l’eco dei propri pensieri nella quiete di un tramonto, qui si può essere felici.
* Consiglio: portatevi le scarpette da scoglio! I filippini sono un popolo gentilissimo, forse il più cordiale che abbia mai incontrato, ma su due cose hanno fatto croce nera: l’illuminazione stradale (sebbene la quasi totale assenza di fari mi faccia pensare che abbiano un problema in generale con il concetto di “luce”) e i moli. Ho visto più bidoni per la differenziata a Manila – e ne ho visti pochi – che ormeggi e pontili in tutta Palawan. Tutte le barche sono alla fonda nella baia, a distanza più o meno variabile dalla riva; ciò vi costringerá prima d’iniziare una piacevole escursione (nonché ad ogni sbarco) ad intraprendere un’avventurosa traversata “ginocchia in umido” per poter accedere/smontare dal vostro vascello. E i sassi sul fondo tagliano! Ah, anche le borse stagne aiutano nella traversata per protegger i vostri beni da schizzi e risacca.