Fight Club 2 – Le nuove regole di Tyler Durden
C’è uno scrittore i cui libri hanno segnato la fine della mia adolescenza e mi hanno accompagnato attraverso l’inizio dei miei 20 anni: si tratta di Chuck Palahniuk, di cui ho letto o possiedo la maggior parte delle opere e di cui tutti, ormai, hanno sentito parlare, almeno in quanto autore del libro cui si è ispirato uno dei film cult dei anni 90, “Fight Club”. Guru indiscusso del nichilismo e feroce denigratore della società consumistica, antesignano della filosofia a 140 caratteri (quanto sono facili da citare quelle sferzanti frasi ad effetto che riempiono tutti i sui scritti), ormai molte delle sue citazioni sono entrate a far parte dell‘immaginario collettivo della nostra generazione, rendendo lui stesso, di fatto, dispensatore di cultura per le masse.
E’ con queste premesse che, il Nostro, si trova ad affontare un pesantissimo sequel di cui, credo lui più di tutti, sentiva il bisogno. Confrontarsi dopo 20 anni con la tua prima opera, e quella che ti ha consacrato alla fama, non è affatto un’impresa facile, per non parlare del fatto che, questa volta, il mezzo di comunicazione scelto è il fumetto, mai sperimentato prima dall’autore. Insomma, questo “Fight Club 2” è davvero un progetto ambizioso e, si sa, per affrontare queste imprese è sempre meglio circondarsi di validi compagni di vaggio, ovvero i pluripremiati Cameron Stewart, ai disegni, Dave Stewart, ai colori, Nate Piekos, lettering, e David Mack, per le copertine. Non mi è chiara una cosa, però: sia nell’edizione italiana (un omnibus edito da “BAO Publishing”) che in quella originale americana (una miniserie di 10 numeri uscita per “Dark Horse”) Chuck Palhaniuk è accreditato come “storia” o “scrittore”, ma questo vuol dire che ha scritto di suo pugno la sceneggiatura? Sembrerebbe di sì, dato che non ci sono altri autori accreditati, e il risultato è abbastanza sorprendente per uno non del mestiere, perché in effetti sfrutta molte delle potenzialità che solo il fumetto offre tra tutti i media, pur pagando una pesante quota di buchi di trama ed espedienti non molto eleganti.
Ma veniamo alla storia. Sono passati nove anni dagli eventi del primo libro, Sebastian, come si fa chiamare ora il nostro narratore, e Marla, che si sono sposati e hanno avuto un bambino, si trovano imprigionati in una vita asettica e monotona, condita da innumerevoli psicofarmaci. Ma qualcuno trama alle spalle di Sebastian e provoca la liberazione di Tyler Durden, il quale non ha mai smesso di cercare di sottomettere il mondo al suo ideale di caos anarchico. Con il susseguirsi delle vicende, in cui si capisce che Tyler Durden non è solo una seconda personalità di Sebastian, ma un vero e proprio archetipo o un’idea che accompagna l’umanità dai suoi albori, il tutto va in tilt nel momento in cui lo stesso Chuck Palahniuk, un arricchito, annoiato scrittore afflitto da un blocco creativo (ho apprezzato molto l’autoironia), entra a far parte della storia ribaltando completamente la prospettiva.
Se, infatti, inizialmente il centro della scena è occupato dall’“idea” Tyler Durden che trascende il singolo uomo e che assurge a ruolo di “dio” inscenando il suo personalissimo mito di purificazione, concetto presente fortemente anche nel romanzo, una volta entrato in gioco Chuck Palahniuk come personaggio, il vero “dio”, ovvero il creatore di tutte le idee e dello stesso universo Fight Club, il sistema collassa. Ci troviamo davanti un “dio”, un artista, la cui creatura ha travalicato i confini della propria stessa forma, il romanzo, diventando a tutti gli effetti parte della mitologia dell’uomo moderno, riuscendo irrimediabilmente a sfuggire controllo del proprio creatore. Nello stesso momento in cui il finale scelto non corrisponde all’aspettativa della folla, l’autore è costretto a tornare sui suoi passi e modificare la storia, come in un collettivo “Misery non deve morire”. È per questo che, sparsi tra le pagine, troviamo molto spesso pillole o petali disegnati in modo realistico rispetto alle vignette e come se fossero appoggiati sopra al foglio di carta, perché noi stessi facciamo parte di quella folla che si è appropriata di Tyler Durden, o meglio, di cui lui si è appropriato, perché “sono le idee a coltivare gli uomini”.
Per fortuna che, ad accompagnare questi concetti non proprio lineari, c’è un veterano come Cameron Stewart che rende i disegni molto semplici, comprensibili e le pagine molto leggibili (nonostante i vari oggetti “appoggiati” sopra che dopo un po’ ho trovato anche ridondanti). Il risultato, comunque, non raggiunge i livelli di drammaticità presenti nei vecchi romanzi, soprattutto perché nel fumetto lo spazio riservato ai lunghissimi soliloqui tipici dei personaggi di Palhaniuk è molto sacrificato, ma, vista anche l’autoironia che accompagna il suo stesso alter ego, penso che sia un risultato voluto e cercato. Interessante, poi, vedere come la stessa storia possa essere raccontata attraverso diversi media, cioè passando da un romanzo, a un film e, infine, a un fumetto.
E scusatemi se ho infranto la prima regola del Fight Club.
Titolo: Fight Club 2
Autore: Chuck Palahniuk
Disegni: Cameron Stewart
Colori: Dave Stewart
Copertine: David Mack
Lettering: Nate Piekos
Casa editrice per l’edizione italiana: BAO Publishing
Anno di pubblicazione in Italia: 2016
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