INTRO SUL PERSONAGGIO CHI È COSA HA FATTO: DALL’ONANISTA JOSH TILLMAN AL PESCATORE DI UOMINI FATHER JOHN MISTY

Joshua Michael Tillman nasce a Rockville, nel Maryland, nel 1981, all’età di zero anni. Come i più svegli tra voi avranno intuito dal nome (non venitemi a dire che è comune chiamare un neonato, ancora innocente, così), il Tillman viene tirato su in una famiglia evangelista, particolarmente flippata sull’ortodossia protestante e pallevarie. Josh ne risente non poco e nelle interviste manifesta sempre una certa insofferenza nei confronti dei genitori e dei loro feticismi religiosi.

Prima di esordire come Father John Misty nel 2012, con l’album Fear and Fun, Josh ha una discreta carriera, tutta barba e chitarra acustica, come J. Tillman dal 2003 al 2010 e una importante parentesi come batterista dei Fleet Foxes dal 2008 al 2012. In poche parole, fino all’apparizione di Father John Misty, ci troviamo di fronte allo stereotipo di cantautore folk che rievoca un certo immaginario bucolico e naive grazie ai peli sul mento e alla chitarra in legno non amplificata.

Ma Josh non aveva fatto i conti con una prematura crisi di mezz’età, che lo sorprende intorno ai 30. Il Tillman (quanto mi piace chiamarlo il Tillman?, sì, scimmiotta molto le vere recensioni) si ritrova impantanato in una sorta di blocco creativo, capisce che per sopravvivere da un punto di vista artistico è necessario continuare a muoversi e che J. Tillman non è altro che la riarticolazione della stessa, solita, idea del cantautore folk, puro e intimista. Pur non rinnegando il valore che fino ad allora aveva avuto per lui quel percorso, anzi riconoscendogli in qualche modo un certo valore catartico, subentra l’urgenza di reinventarsi e, nel farlo, di cambiare nome e attribuirsi un moniker.

La riflessione sottostante a questo bisogno è che, di fatto, anche il nostro “vero” nome è uno pseudonimo, per di più attribuito da altri. Josh sente che J. Tillman non aderisce più al sé autentico, lo avverte anzi fraudolento in qualche misura, un oggetto terzo, una barba e una chitarra che cantano e suonano canzoni al suo posto. Un’attività commerciale tutto sommato già vista e rivista. Si fa strada in lui l’esigenza di comunicare agli altri, piuttosto che di fare musica accartocciata su se stessa.


“I Love You, Honeybear è un concept album su un ragazzo di nome Josh Tillman che trascorre un po’ di tempo sbattendo la testa contro le pareti, coltivando legami deboli con gli estranei e, in generale, evitando l’intimità ad ogni costo.”


 

L’avvento di Father John Misty si basa, dunque, innanzitutto sulla volontà di comunicare. Dallo stereotipo all’autenticità, dalla chiusura all’apertura. Ed è curioso che questo processo viene reso possibile attraverso l’interposizione di un personaggio fittizio, di una maschera. Una maschera che rievoca, peraltro, una sfera religiosa. Del resto, si tratta esattamente del principio che nutre la figura dello sciamano: è solo un personaggio surreale, che spesso assume anche sembianze non umane, a potersi mettere in comunicazione con la vera essenza del proprio io e del circostante, possibilità che invece sono precluse all’uomo comune.

“Per me, un modo per essere autentico è stato introdurre elementi di magia e distrazione. La retorica del cantautore che ha scritto il suo album più personale e confessionale è così limitante. Ho avvertito il bisogno di essere authentically fake.”

Questa cosa dell’autenticamente falso voglio spiegartela, perlomeno per come l’ho intesa io: essere autenticamente falso ti rende autenticamente più vero di un cantante vero. Per dire, non so se, per puro caso, hai mai visto esibirsi Eros Ramazzotti. È agghiacciante: si contorce come un uomo in preda ai mali più atroci del mondo, tipo un’aerofagia lancinante o qualcosa di simile. È drammaticamente finto, o meglio, è vero per finta, se capisci cosa intendo: uno spettacolo osceno. Father John Misty è finto davvero, invece. E le sue pose, e i suoi movimenti, palesemente plastici e forzati, portati volutamente in scena, risultano autentici perché svelano la finzione, e la finzione, una volta svelata, non è detto che non possa essere parecchio autentica.

Prendi la vita: la vita è tutta un’illusione, no? Uno spettacolo da guitti, senz’altro. Siamo tutti d’accordo su questo, mi pare. Però se prendi un fucile a canne mozze e mi crivelli l’intestino, t’assicuro che si tratterebbe di un’esperienza di dolore assolutamente veritiera e cristomadonna. Se invece mi spari con delle palline di cotone imbevute nel miele e io mi agito come se mi fosse appena esploso un ovulo di cocaina nello stomaco, quello è Ramazzotti. Quello prima, l’hai capito, era Father John Misty.

ben-kaye-father-john-misty-central-park-summerstage-2

È insolito che, nonostante il rigetto per le perversioni e le preghiere in lattice evangeliche, il moniker prescelto ricada su Father John Misty. Sull’evocazione, cioè, di una figura pastorale. Quello che interessa al Tillman, però, s’è capito, non è tanto il tirare in ballo precetti morali, quanto portare in scena un personaggio avvezzo alla scena. Chi più di un cerimoniere spirituale può assolvere a tale compito?

C’è una certa retorica comune, a ben vedere, al mondo dell’essere religioso e dell’essere artista, a partire dal fatto che si va a popolare una dimensione fantastica (senza che l’attributo comporti dei giudizi sull’essere credente o meno, va da sé). Tanto che è lo stesso Tillman a dire che, sotto un certo punto di vista, cinico forse, si potrebbe dire che persino la sua stessa aspirazione a diventare musicista deriva proprio dall’essere stato abituato ad aspettarsi una “chiamata” (nel senso religioso del termine), a dover raggiungere un certo successo personale (nel senso più protestante del termine “successo”, in cui realizzazione personale e realizzazione spirituale si prendono per mano e fottono come ninfomaniaci).

Il nome John, invece, se ho ben dedotto, è un tributo al poliedrico artista John Lurie (su twitter il Tillman, nella bio profilo, scrive “only here for John Lurie”). Da tutto questo, Father John Misty: il comunicatore, il guru, lo sciamano, il cerimoniere, l’uomo in grado di parlare a folle costituite da individui, in grado di suggestionare ed evocare un territorio affettivo comune da popolare insieme. Senza che questo, però, cosa che si evince bene dai testi, implichi una missione etica o pedagogica.


 

“Post-modern Self-reflexive Semi-Ironic Renunciation of Originality”


 

Sotto questo aspetto, ma non solo, Josh Tillman è perfettamente “generazionale”: non è l’officiere di un ministero, non è il messia, ma gioca a vestire i panni di un messia, di un guru, dei nostri tempi, che in quanto tale non può essere rassicurante come dovrebbe e si presenta invece spiazzante, vanesio, annebbiato e indecifrabile (misty, appunto, che a sua volta richiama il coinquilino mystic); alla base del suo scrivere e cantare c’è una volontà di comunicare, di essere un performer, un artista senza morale (ma non immorale), che dà delle risposte che sono le sue, che non disdegna la riflessione personale, ma la serve quasi sempre accompagnata da una sferzata istrionica e scenografica. Per Father John Misty, l’etica è un fatto di estetica.

1 COMMENT

Leave a Reply