Storie della tua vita. Il ritorno dei Fast Animals And Slow Kids
Sono sei anni che seguo i Fast Animals And Slow Kids. Li seguo con l’attenzione ansiosa che dedico agli amici e alle cose più care – come una ragazzina quindicenne o il padre con i figli, diceva stamattina Stefano – e ogni loro uscita l’aspetto con una certa tensione. Non tanto perché temo mi deludano – oggettivamente, il talento dei ragazzi è fuori discussione per chiunque abbia orecchie: l’unica cosa che si possa temere sono fisiologici cali d’ispirazione – quanto piuttosto perché mi domando come possano ancora parlarmi di me, a quasi 36 anni, nel modo in cui hanno sempre fatto.
Nell’estate del 2013 avevo bisogno di uno scatto, e mi sono trovato travolto da Hybris e da un live che non faceva prigionieri (di fatto, quel disco mi ha dato quello che Ten o Warehouse avevano potuto solo in differita, per ovvie ragioni anagrafiche); sono andato a vivere da solo il giorno che è uscito Alaska, e quel nero era perfettamente adatto a raccontare la paura del vuoto e della solitudine che temevo mi avrebbe circondato e poi sopraffatto; calciavo via l’inverno all’uscita da una relazione sabotata e all’inizio di un’altra (che avrei sabotato in seguito), e sono arrivate le chitarrone indie nella primavera di Forse Non È La Felicità. E tutto questo senza contare quella voglia di rendere memorabile ogni concerto, ogni riff, ogni strofa, ogni ritornello: un’attitudine da stadio, però capace di puntarti il dito in faccia e dire “tu esisti, tu conti”. In fondo, ragazzi come me hanno solo bisogno di una band che glielo dica.
Ho aspettato sveglio la mezzanotte, giovedì scorso: alla mia età può diventare un vero traguardo, quando non ci sono film o concerti in programma. Come un rituale, ho chiuso l’app di Spotify e l’ho riavviata: ad aspettarmi c’era Non Potrei Mai, un nuovo regalo da scartare – se ancora esistessero involucri e si scartassero le cose, oggi, ma è questo l’effetto che mi fanno i FASK: sembrano venire da un’epoca in cui la musica indie respirava anche in un immaginario che coglievi perfino nelle foto scattate da Polaroid da due soldi.
Avevo paura, lo confesso, perché negli ultimi tempi i miei ascolti sono andati proprio a parare altrove: jazz, funk, rumorismi vari ed elettronica sono diventati la mia quotidianità, e ad ascoltare i nuovi dischi di classico indie-rock – pure quelli più acclamati, tipo Japandroids o Cloud Nothings – mi pareva sempre di guardare cartoline sbiadite, come di un’epoca passata di cui non senti neanche troppo la nostalgia, ma cui guardi con un sorriso giusto un filo malinconico stampato in faccia (le foto del liceo: e onestamente chi rivorrebbe l’acne?). “Non possono più parlarmi nemmeno i FASK”, mi dicevo. E sbagliavo.
La cosa che è sempre venuta meglio ai ragazzi di Perugia, credo, è quella capacità di inventarsi aperture melodiche ampie e ariose, capaci di farti sentire al centro dell’universo: non è un caso che il loro album meno riuscito – e comunque bellissimo – sia Alaska, dove tutto era troppo compresso e in certi casi perfino troppo forzatamente cupo; non è un caso che il loro capolavoro sia Forse Non È La Felicità, quello dove c’è più spazio. Era solo questione di tempo – un tempo di convivenze, matrimoni, perfino bambini – prima che ne prendessero atto anche loro e decidessero di aprire definitivamente le finestre e far entrare aria nuova, fresca: e chissà che finalmente ai loro live non ci si liberi degli sfigati che vengono semplicemente per menare le mani.
Il riff pulito della Gretsch di Alessandro è figlio di Marr e Buck, il ritornello – elegantemente liberato dalle distorsioni del passato – scampanella di sei-corde e glockenspiel con la carica dello Springsteen giovane (da sempre uno dei loro modelli, in materia di “spostare montagne con una canzone”). L’interpretazione di Aimone sale di tono e qualità col passare dei secondi (non sa bene raccapezzarcisi nemmeno lui, all’inizio, ma poi si trova per la strada), il basso di Jacopo si staglia imponente e la batteria di Alessio è sempre imperturbabile (anche qui molto Reckoning); e alla fine gli ultimi trenta secondi sono un treno in corsa di pura, distorta libidine, modellata sugli accordi di Bigmouth Strikes Again: dal vivo prevedo sfracelli.
La produzione targata Warner, rotonda e splendidamente pop e radiofonica (nel senso che l’heavy rotation di un brano simile renderebbe le radio rock posti migliori e meno tristemente nostalgici) ha fatto storcere il naso a parecchi fan: non dategli retta, se nella musica cercate qualcosa di più del corrispettivo di uno status brillante e cinico su Facebook. C’è solo da sperare che l’intero disco sappia mantenersi su questi livelli: io ne sarei felice.
Poi ci sono le parole: niente velleità letterarie, vivaddio, ma per qualche motivo i testi dei Fast Animals And Slow Kids mi lasciano sempre di stucco – come mi capita ogni volta che una canzone rock in italiano quadra anche dal punto di vista metrico (pensate al suono perfetto di quei “vuoi”, immaginateli in un palazzetto zeppo di pugni alzati; pensate a come fila spedito sulle rullate di batteria un verso come “non ci sei più / in fondo forse è meglio adesso”, pure se provate a digrignarla). E il senso, per dio, il senso complessivo di un testo che vaga spaesato, domandandosi non solo come si faccia a superare il dolore di un distacco, ma pure se sia il caso di farlo, senza saper mai cosa tenere e cosa buttare: uno spaesamento che ho visto e vissuto in prima persona così tante volte negli ultimi mesi, da quando ho iniziato con la psicoterapia (“guardi per terra e non sai che è lì che vorrei scomparire”), che ritrovarlo messo in musica ora e così è stato un tuffo al cuore. Allora mi asciugo gli occhi, mi siedo sul pavimento fra le casse dello stereo, alzo ancora il volume e mi dico che basta un pezzo così per ricordarti che una band può essere la tua vita.