Fair Padova, nursery of arts
For the great desire I had to see / fair Padua, nursery of arts, I am arrived… / and am to Padua come, as he that leaves /a shallow plash to plunge in the deep, and / with satiety seeks to quench his thirst.
Per il grande desiderio che avevo di vedere / la bella Padova, culla delle arti sono arrivato… / ed a Padova sono venuto, come chi lascia / uno stagno per tuffarsi nel mare, ed / a sazietà cerca di placare la sua sete.
Con Padova ho un rapporto a dir poco complicato. Lo si potrebbe descrivere, se vogliamo, come quell’indistinguibile insieme di emozioni contrastanti che si prova per quel compagno di classe che guardavi sempre con la coda dell’occhio. Quello che ti faceva i dispetti cattivi all’intervallo, che con le medie hai perso di vista e che talvolta ti capita tra le persone che potresti conoscere su Facebook. Un affetto nostalgico di qualcuno che non ti ha trattato poi però tanto bene.
Padova, da piccola, era quel luogo mistico, vicino ma sconosciuto, dove le maestre ogni tanto ti portavano in gita, affittando un autobus enorme per un quarto d’ora di viaggio in mezzo alla zona industriale del Veneto più operoso. I primi ricordi sono distratti e disinformate nozioni elementari: la fondazione mitica da parte dell’eroe troiano dovuto fuggire a malincuore dalla propria città data alle fiamme; Giotto e la sua straordinaria capacità di disegnare cerchi perfetti; l’università più antica, la piazza più grande d’Europa. Poi, per anni ed anni, il nulla: snobbata a favore di una Venezia più stereotipicamente bella, era il posto dove passare, al limite, un pomeriggio di noia tra un negozietto e l’altro.
Mettendo il naso fuori dalla stazione, tornando dopo mesi di lontananza dalla regione natale, tra il McDonald’s dell’angolo sempre stracolmo di adolescenti che sanno di ormoni e primi assaggi di libertà, i baretti bui e gl avventori seduti su vecchie sedie di plastica fuori dai negozi, quasi dimentichi perchè avevi voglia di tornarci, lì. Eppure basta qualche metro, basta qualche ricordo. Forse la bellezza di Padova, come quella di tante altre città d’Italia, sta proprio nello stupore di dettagli eleganti ed antichi dove non li aspetteresti, affiancati alla desolazione di una qualsiasi vita quotidiana.
Sta nella cappella degli Scrovegni, espressione di un’arte religiosa che commuove anche il cuore più ateo, e nel suo parco, famoso in tutta la città per essere il luogo dove i ladruncoli rivendono le biciclette scippate a qualche malcapitato. Oppure nel caffè senza porte, quel Pedrocchi espressione di una vivacità intellettuale da piena, gloriosa rivoluzione scientifica, e nei turisti cinesi che scalano i leoni di pietra per spararsi un selfie. Lo trovi camminando sulle sponde alberate di un Brenta che scorre placido, schivando – quando la sessione chiama – le centinaia di nuovi laureandi denudati di tutto (in prima fila la dignità) cosparsi di uova, farina e tutto ciò che è viscido e disgustoso, che leggono eroici la storia della propria vita in rime a dir poco fantasiose. Lo apprezzi quando lo sguardo si apre sul prato senza erba, un perfetto ovale sorvegliato da secoli da un doppio anello di statue bianche e severe, e pensi ai liceali che sfidano le leggi dell’igiene e della sanità mentale gettandosi nel canale gli ultimi giorni di scuola. Lo noti stupito quando trovi l’universitario svogliato che si gira la cannetta uscendo da sedi secolari che hanno visto scorrere tra le proprie aule Galilei, Copernico, Leon Battista Alberti. Scuoti la testa davanti all’accampamento anomalo di allegri papa boys accaldati, fuori dalle porte della Basilica di un Santo senza nome dai bizzarri elementi architettonici.
Non è certo solo questo, Padova, ovvio. Anche a chilometri ed ore di distanza, non si dimenticano quelle scoperte che negli anni trasformano una città dall’anonimo centro abitato che era all’angolino di cuore che è. In mezzo ci passano gli Spritz Aperol perfetti – chè, non me ne vogliano i friulani, uno Spritz senza l’Aperol non è davvero uno Spritz, dai – sorseggiati in una giornata d’estate sotto un ombrellone che getta ombra su Piazza delle Erbe in compagnia di vecchie amicizie; le ore volate tra gli scaffali del 23, quel negozietto di CD magico, tempio di ogni giovane alle prese con il proprio immancabile periodo indie; i libri appoggiati nel posto sbagliato ed abbandonati contro voglia a causa di un portafogli sempre troppo vuoto in una Feltrinelli enorme, faccia a faccia con la mitica Tomba di Antenore e appena a fianco con la casa che ha accolto un Dante in esilio; i portici infiniti che si trasformano nella salvezza genuina quando le nuvole diventano tempesta; le piazzette riempite di bancarelle, lucette, addirittura piccoli stadi per pattinare sul ghiaccio nelle pungenti giornate d’inverno.
E poi tornare sempre, estate dopo estate, per il concerto inatteso di una band che ha capito la magia di Padova quanto te e che, tra una Milano e una Roma, una tappa del tour allo Sherwoord Festival non la disdegna. Se non sapete dove orientarvi, è semplice: basta seguire la carovana di giovani spavaldi in bicicletta, scia multicolore che si arresta lì, dove comincia la periferia e si respira l’aria di una città che, seppur Dotta, tra graffiti delicati e una sottocultura viva come non mai,trova sempre il modo di stupire.