La 25ª ora, Spike Lee

La 25ª ora, Spike Lee

Il Tempo è solitamente impalpabile, ma succede, talvolta, che rimanga impigliato, che si raggrumi o coaguli, intorno a dei fatti ben precisi, che diventano tappe fondamentali nella nostra vita, dei punti fermi in base ai quali distinguere nettamente un prima e un dopo. Sebbene solitamente la Storia non si interessi delle nostre personali tappe, esistono fatti storici che segnano un cambiamento personale ed epocale, riuscendo a far collimare la Storia universale con la storia che ognuno di noi vive e recita.

Il passaggio fra il secolo ventesimo ed il ventunesimo non è avvenuto nella notte fra il 31 dicembre e il primo gennaio; la paura del Millennium Bug, le feste scatenate, le follie apocalittiche non hanno segnato alcuna cesura nella nostra vita e ancora meno nella Storia. Ci siamo svegliati, tutto il mondo come noi, la mattina (tarda, forse anche il pomeriggio) del primo gennaio 2000 esattamente uguali a come eravamo quando ci siamo coricati a letto, sbronzi, ore prima. Il passaggio netto fra i due secoli, fra i due millenni, ha dovuto attendere oltre 600 giorni, ha dovuto aspettare la tragedia dell’11 settembre 2001. Tutti ricordiamo esattamente dove eravamo, cosa stavamo facendo, quando sentimmo la notizia in televisione, quando per la prima volta quelle immagini, che sarebbero poi diventate martellanti nell’immaginario visivo comune, passarono davanti ai nostri occhi. Tutti sappiamo che c’era un prima e c’è un dopo.

Lo sa bene Spike Lee, uno fra i registi più newyorkesi di sempre, e per questo confeziona il primo film del ventunesimo secolo che analizza il secolo appena concluso. Molti film sono stati realizzati con riferimenti al 9/11, molti film trattano del giorno degli attentati, forse troppi e spesso con scarsa riuscita tecnica, puntando solo sullo sfogo emotivo. La 25esima Ora è il primo a realizzare il dramma umano del post 11 settembre, parlandone apertamente, infilando il dito nel dolore, pur relegando (solo apparentemente) i fatti tanto noti a sfondo e titoli di testa.

Montgomery “Monty” Brogan, interpretato da un tiratissimo Edward Norton, è un piccolo criminale di NYC che ha fatto i soldi con la droga e che viene pizzicato ed arrestato a causa di una soffiata. Il suo mondo crolla e gli restano 24 ore di addii, prima di trasferirsi in prigione per sette lunghissimi anni. Niente più belle macchine, niente più bella moglie (la sempre splendida Rosario Dawson), niente più Doyle, il cane che aveva salvato anni prima, ora suo inseparabile amico. Davanti a lui si parano sette anni di soprusi, risse, verosimilmente stupri per un faccino troppo pulito come il suo, capace di fare il duro solamente davanti ad un tossico in astinenza. È il momento di regolare i conti in sospeso e accomiatarsi: dai suoi amici d’infanzia, Jacob Elinsky (il sempre impeccabile Philip Seymour Hoffman) e Frank Slaughtery (il nervoso Barry Pepper), dalla moglie Naturelle e dal padre, vecchio pompiere irlandese, ora proprietario di un bar. Nei suoi saluti c’è tutta New York, agli occhi di Spike Lee: c’è la cultura del professor Elinsky, impacciato ed autocommiserativo (NYC è città di ebrei ed Elinsky, certamente, non è un nome casuale), c’è la freddezza ipocrita di Wall Street e dell’economia, negli occhi più attenti al sesso che al sentimento dell’amico Frank, narcisista e cinico; c’è l’immigrazione di seconda generazione, le birre irlandesi e il baseball, i portoricani mai stati a Portorico (Naturelle), i russi mafiosi (la Litte Odessa di James Gray).

La regia di Spike Lee è capace di creare un tempo immaginario, un’ora che non esiste, fondendo i ricordi dei giorni passati alla festa di addio e alle “fughe psicogene” di Monty. Indugia sul suo protagonista, distrutto dal dolore e dal peso delle conseguenze delle sue azioni e dei giudizi altrui. Dipinge perfettamente i comprimari, che nascono come maschere per poi distruggersi nel corso di una notte, seguendo Norton nell’inevitabile baratro morale. Così l’integerrimo Elinsky si lascia sedurre da una sua studentessa minorenne (siamo negli Stati Uniti, non in Italia: per roba così si va in galera!), Frank sfoga la rabbia per l’accaduto con Naturelle, promette promesse difficili da mantenere a Monty, che ritiene completamente responsabile di tutto ciò che ora gli sta capitando. La facciata iniziale si rompe ed anche il padre, solido irlandese d’altri tempi, alla fine spera e offre al figlio un finale alternativo, di fuga dalla giustizia.

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Tre scene rendono memorabile il film, che viene da queste scandito. Due fughe d’immaginazione attraverso lo specchio e il finestrino della macchina. L’incredibile monologo “Fuck you”, che Monty rivolge a se stesso e a tutta la sua città (di difficile realizzazione tecnica, per altro) è la distribuzione delle colpe, che cadono su tutte le categorie, fra di loro separate, per poi tornare alla fine sul protagonista: bisognerà aspettare le scene finali del film perché queste “categorie umane” trovino la loro posizione collettiva, fuse nella Città, fra di loro così diverse, ma insieme così unite. All’altro capo del film, il progetto di fuga e nuova vita che il padre di Monty gli prospetta accompagnandolo in prigione, prosecuzione “fuorilegge” del sogno americano di sempre. In mezzo fra i due, la scazzottata fra Monty e si suoi amici d’infanzia, dove tutto viene a galla, tutto viene detto, quasi senza parole, come accade in questi momenti. Ogni maschera ora può cadere, ogni finzione saltare.

C’è tutta New Tork, dentro la 25esima ora, e tutta la tragedia dell’11 settembre. Come forse in letteratura solo Don De Lillo ha fatto finora, Spike Lee ci racconta una catastrofe umana, ancor prima che “architettonica”: non sono cadute solo due torri, è caduto il sentimento di una città-nazione, il senso di invincibilità e sicurezza. Ciò che si trovano davanti, ora, Monty e NYC, è un terreno sconosciuto e straniero, illuminato male da due fari che puntano al cielo e non alla strada da percorrere. Tutto ciò che era noto e dunque portatore di tranquillità, ora non c’è più: di chi fidarsi allora? Monty teme che a tradirlo sia stata Naturelle, la sua devota compagna, ma comunque una “straniera”, come è anche lui, come siamo tutti di fronte al dubbio. Il sospetto che ha serpeggiato fra gli americani nei mesi seguenti l’attentato, la paura del tradimento, è il medesimo sentimento che prova il protagonista. Così come il crollo delle certezze di una nazione, si riflette nel crollo dei personaggi, uno a uno; e nel crollo del senso di un intero secolo, di un intero sistema mondiale, perché ciò che accade all’America, accade a tutti. Non ci si può più rifugiare nella tranquilla frenesia dell’economia mondiale, né nelle tradizioni importate dal vecchio continente!

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Cosa rimane, dunque? Nello spaesamento dolente di Monty c’è tutto il sentimento che rimane, dopo le urla e gli strepiti e la polvere, come maceria ancora fresca, dentro ognuno di noi. Il futuro è incerto. Il personaggio di Edward Norton deve decidere che strada intraprendere: la galera, la fuga o il suicido. Non esiste una strada semplice. Possiamo affermare che il primo decennio del nuovo millennio sia stato caratterizzato dalla crisi e che il secondo decennio sia iniziato alla sua insegna. Crisi deriva dal greco krino, che significa innanzitutto “dividere, separare”, come separa il dubbio, la paura. Seguendo il dizionario, però, la parola assume anche il significato di “cernere, scegliere”. La crisi ha chiamato Monty ad una scelta e, con lui, l’America e tutti noi. Siamo scappati o abbiamo affrontato le conseguenze delle nostre colpe?

Alessandro Pigoni

 

Titolo: La 25ª ora
Anno: 2002
Regia: Spike Lee
Durata: 135min
Sceneggiatura: David Benioff (dal romanzo omonimo)
Cast: Edward Norton, Philip Seymour Hoffman, Rosario Dawson, Barry Pepper, Brian Cox, Anna Paquin

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