“Euphoria”: gioventù alla fine della decadenza
“When you fall hard for somebody, you’re not just miserably obsessed
— some part of you believes this is the last chance at love that you’ll have.” (S. Levinson)
Dal 16 giugno è disponibile negli USA la serie evento targata HBO e diventata un caso mediatico a causa dell’alto tasso di contenuti espliciti riguardanti sesso e droga. Sfida accettata dalla nota emittente, nonostante il ‘Parents Television Council’ abbia cercato di boicottarla, definendola “a grossly irresponsible programming decision”. Se, per buona parte di pubblico, “Thirteen reasons why”, la serie Netflix che trattava il tema del suicidio di una adolescente, era riuscita ad inserirsi nei cosiddetti ‘teen drama’ in maniera cruda (inutili i paragoni con “Sex Education”, dove l’ironia permetteva di affrontare anche le tematiche più delicate con un sorriso, e “Skins”), “Euphoria” si dimostra adatta, più che per un pubblico giovane, agli adulti degli adolescenti ai quali è implicitamente rivolta.
La serie (in Italia disponibile dal 26 settembre su Sky Atlantic) è composta da 8 episodi ideati da Sam Levinson che ne è anche produttore esecutivo insieme a Drake. L’ideatore è il figlio del regista Barry Levinson e si è ispirato proprio al suo passato di dipendenze per concepire una storia che ha come protagonisti un gruppo di liceali che scoprono l’amore, l’amicizia e la droga.
La creazione di Euphoria, dunque, deriva da una esperienza personale che ha quasi portato il regista alla morte; Levinson ha infatti dichiarato di aver trascorso la maggior parte della sua adolescenza in rehab (“I spent the majority of my teenage years in hospitals, rehabs and halfway houses. Sometime around the age of 16, I resigned myself to the idea that eventually drugs would kill me and there was no reason to fight it. I would let it take me over, and I had made peace with that”).
Il regista, per rendere la sua opera ancora più efficace, si è avvalso dell’aiuto di noti professionisti del settore, tra i quali spiccano la designer dei costumi Heidi Bivens e la truccatrice Doniella Davy, a cui si deve il massiccio utilizzo dell’iconico glitter sui volti dei protagonisti. Azzeccate si rivelano, quindi, le scelte dei giovanissimi attori: Barbie Ferreira, presente nella lista stilata dal Time (2016) dei 30 adolescenti più influenti grazie al suo impegno contro il body shaming; Zendaya, che interpreta la protagonista Rue, MJ negli Spider-Man del MCU, apparsa anche in The Greatest Showman; Hunter Schafer, modella gender fluid che interpreta Jules, diciassettenne trans dal fascino etereo.
“Quello che cerco di fare”, ha detto Hunter Schafer al NY Times riferendosi al suo attivismo ed alla sua presenza all’interno di “Euphoria”, “è decostruire l’idea di gender, usare i privilegi e la visibilità che ho come modella per accendere un riflettore su questo”.
Di certo la ragazza che interpreta sullo schermo non passa inosservata: indossa stampi e strass glitterati sulle palpebre e intorno agli occhi, che abbina con ombretti color pastello, è espressione di generazione fluida che non ha paura di raccontarci il modo in cui vivono gli adolescenti di oggi tra smartphone, youporn, sesso occasionale e cyberbullismo.
Difficile non fare il tifo o immedesimarsi, anche se parzialmente, in almeno una delle situazioni narrate dai personaggi: la tossicodipendente, la transgender, l’atleta inarrivabile e violento, la ragazza grassa autrice di fanfiction. Difficilissimo, soprattutto, non notare il rapporto morboso che accomuna le due protagoniste. Jules affascina in maniera istantanea Rue proprio mentre questa torna a casa dopo essere stata in rehab in seguito ad un’overdose; presto le due ragazze diventano migliori amiche ed iniziano a condividere esperienze estreme.
Lo spettatore è coinvolto in questo loro trip a base di fentanyl e chat online alla ricerca di una identità sfuggente e dell’amore che non sentono di meritare. Entrambe devono convivere e superare traumi passati, ricostruire la loro vita.
“I have never met someone like Jules in my entire life”, confida Rue allo spettatore, sostituendo presto il suo bisogno di droghe con la dipendenza incarnata dalla nuova arrivata.
Le strade buie del sobborgo, le luci al neon, le pozzanghere scintillanti, per non parlare della fotografia ed il montaggio, trasformano l’intera serie in un lunghissimo video musicale (proprio sulle note di “All for us” di Zendaya termina l’ultimo episodio) che lascia intossicato e stordito lo spettatore. Diversamente da “13 reasons why”, “Euphoria” non romanticizza comportamenti autodistruttivi e non affronta tematiche delicate con banalità o in cerca di facile marketing.
Estremamente attuale, questo gioiello visivo ci rende partecipi dei paradisi artificiali di una gioventù alla fine della decadenza. Forse non si guarisce mai da se stessi, dai propri demoni mentali, ma si impara a gestirli, a zittirli ed a conviverci.
Cristiana Roffi