La bella estate. L’ottovolante guitar pop dei Rolling Blackouts Coastal Fever
Ne parlavamo l’altro giorno. Certo la gente dall’altra parte dell’Oceano ora sta prestando attenzione [a quello che succede qui, ndr]. Ma la scena musicale qui a Melbourne è sempre stata davvero forte. E dunque non so se sia proprio una Golden Age oppure invece la solita cosa. […] Posso dire però che la musica che esce ogni settimana da Melbourne è semplicemente fenomenale. E ci sono tanti, tantissimi gruppi che non hanno ancora avuto quel tipo di esposizione; ma penso che se le persone scavassero un poco, troverebbero un sacco di altre band di Melbourne di valore internazionale, senza dubbio.
Rispondevano così, entusiasti, i Rolling Blackouts Coastal Fever a un giornalista che chiedeva loro se, insieme a Courtney Barnett e a quei matti dei King Gizzard & The Lizard Wizard, si sentissero di rappresentare una sorta di rinascimento del rock australiano. Se posso permettermi di dire la mia, no: perché l’Australia, da quattro decenni almeno, può fregiarsi di un underground di qualità straordinaria. E il quintetto di cui vi parlo oggi – che un mese fa ha dato alle stampe per Sub Pop un LP bruciante – pare proprio il degno erede di una tradizione che a limpide melodie pop ha sempre saputo sposare attitudine e tiro punk. Ma non è solo questione di suoni, e qui sotto provo a spiegarvi perché.
Per dirvi come sono arrivato a questa band, mi tocca partire da lontano, e più precisamente dal concetto di nerd che si è sviluppato in questi anni dell’Internet. Molti di voi saranno troppo giovani per ricordare un periodo in cui non bastava dire di aver visto uno o due Star Wars (e detestare Jar Jar Binks) per dirsi nerd, una definizione che una volta non si esibiva come uno status. Al di là della magica aura di sfiga da Freaks & Geeks che accompagna da sempre il termine, sin dagli albori, nerd significava anche una condivisione di passioni con pochi eletti, quelli che – almeno così credevamo – erano in grado di cogliere come noi dettagli invisibili ai più nei dischi, nei libri, nei film che formavano il nostro immaginario, il nostro mondo.
L’amico che arrivava da te con la cassetta o il cd, quello che si scriveva a pennarello su un braccio il nome di una band come fosse un segreto da custodire gelosamente: per questo genere di cose ci piaceva dirci indie e amavamo cose come i Pavement (c’è un intero articolo, riguardo a questa cosa della musica da ultimo banco, che vi consiglio di correre a leggere). Il mio incontro con i Rolling Blackouts Coastal Fever è stato assolutamente perfetto, in questo senso: non ci sono arrivato da Pitchfork, Mucchio, Blow Up, Ondarock o SentireAscoltare; stavolta è stato un messaggio Whatsapp a svegliarmi.
“Amico questi li hai sentiti? Mi stanno facendo piuttosto volare, devo dire!”
Era Alessandro, uno dei miei punti di riferimento quando si arriva a parlare di indie-rock e, incidentalmente, chitarrista della migliore band italiana di rock alternativo attualmente in circolazione, i Fast Animals And Slow Kids – andate a pogarli e a perderci la voce dal vivo, quando sarà. Di solito non sbaglia, e così ho infilato subito le cuffie: era il 15 giugno, l’estate a un passo, e per me non c’è stato scampo. Vedete: questo è il bello di un modo così old fashioned di pensarsi nerd, questa totale dedizione a una causa perdente, che però ti fa sapere in anticipo cosa scalderà il cuore di quei fratelli su cui sai che potrai sempre contare.
Hope Downs è manna dal cielo per chi è cresciuto a pane e giubilante jangle pop, sin dalla confezione, perfetta per il vinile: dieci tracce e trentacinque minuti, con particolare attenzione alle strategiche aperture e chiusure di facciata. I Rolling Blackouts Coastal Fever ci sono arrivati con calma, dopo due EP di cui non sapevo nulla prima di leggerne da Monica Mazzoli sulle pagine di Kalporz (tenetela d’occhio: anche lei è una garanzia, su questi suoni), e all’esordio sulla lunga distanza regalano subito canzoni non semplicemente buone, ma addirittura memorabili per fragranza dell’impasto sonoro, intensità d’esecuzione e maturità compositiva.
Qui dentro ci sono i Go-Betweens, luminari del guitar pop australiano per almeno due decenni, e c’è il piacere sotterraneo dei REM indipendenti; c’è la gioia ritmica irrefrenabile dei primi Feelies, appena epurata delle nevrosi più estreme, e c’è una chitarra solista che miagola alti alla maniera del leggendario Dave Schramm – sei-corde delle meraviglie che accendeva il timido Ride The Tiger degli Yo La Tengo: recuperare, subito, il capolavoro The Way Some People Die. In tutto questo, l’impatto garantito dalle tre chitarre (un’acustica e due elettriche) poggia su solide basi ritmiche, che per forza e peso specifico nell’economia della band possono ricordare perfino Andy Rourke e Mike Joyce degli Smiths.
Ma tutti questi riferimenti non servirebbero a nulla, senza una personalità definita e canzoni forti. E dentro a Hope Downs i Rolling Blackouts regalano una sequenza di pezzi e ritornelli che raggiungono quasi sempre l’ottimo, con ben più di un vertice: ad esempio, nelle geometriche ragnatele di riff di An Air Conditioned Man, Talking Straight e Mainland, la migliore tripletta d’apertura che possiate immaginare; ad esempio, nelle dolcezze solo un filo più rallentate di Sister’s Jeans e The Hammer – un brano che promette di far faville, dal vivo. Se dovessi però indicare un unico pezzo per dirvi che i Rolling Blackouts Coastal Fever sono qui per restare, sarebbe di certo How Long?.
Un mid-tempo rilassato, la nona traccia in programma; una voce quasi stordita, di poche parole: da cosa stai scappando, insiste, mentre le chitarre disegnano giusto un paio di semplici riff, che per precisione e incisività mi hanno subito fatto canticchiare mentalmente un piccolo classico dimenticato degli anni zero, No One Has Ever Looked So Dead delle Organ (a proposito: un disco solo, quello, ma che bellezza). La luminosità malinconica di una sera estiva in cui tutte le opportunità del mondo sembrano offrirsi davanti a te, anche se solo per qualche ora.
Una vera meraviglia, che mette in note come meglio non si potrebbe la definizione che di Hope Downs ha offerto uno dei tre cantanti/chitarristi della band, Tom Russo: un modo per trovare cose a cui aggrapparsi di fronte al cinismo. Quello che noi nerd romantici cerchiamo sempre, dopotutto.
Titolo | Hope Downs
Artista | Rolling Blackouts Coastal Fever
Durata | 35′
Etichetta | Sub Pop Records