Ho cominciato Essere una macchina con una ferrea volontà di non cedere ad un più leggero Netflix (anche senza chill) e la curiosità morbosa che di solito dedico ai dettagli dei disastri aerei, cioè a quelle cose che ti terrorizzano nel profondo e da cui però non riesci a staccare gli occhi, una droga intellettuale che si autoalimenta perchè quando capiterà la catastrofe almeno saprai perfettamente come andrà a finire. Un apparente, e ovviamente illusorio, recondito fantasma del controllo, del non c’ho le mani sul volante ma posso perlomeno prevedere cosa potrebbe succedere. Insomma, quella magra consolazione lì.
Ma qual è la catastrofe?
La fine della morte, signori miei.
Nelle sue splendide pagine Adelphi Mark O’Connell dice, in pratica, che smetteremo di morire. Che un gruppetto di gente – perlopiù ancorata nei dolci anfratti della Silicon Valley con un sacco di soldi e visioni ultronee – ci libererà dalla fastidiosa seccatura del tirare le cuoia.
Con la loro fascinosa ed evocativa autodefinizione i transumanisti puntano – sostanzialmente – ad una tangibile e comprovata immortalità.
Non riuscivo a chiudere la quarta di copertina, gli occhi bestie divoratrici, perché a me l’immortalità fa letteralmente terrore: la non finitezza delle cose, il perenne, finanche il regno dei cieli – tutto ciò mi evoca l’esatto contrario di “va tutto bene”, una sensazione di vertigine e d’inutilità svuotante. Avrebbe senso fare qualsiasi cosa, amare qualsiasi persona, svegliarsi qualsiasi mattina, quando non c’è la fine di nulla?
Nella fioca luce notturna del mio soppalco, fissando stralunata il soffitto, il libro pigiato sullo sterno ancora da cominciare, mi dicevo – ma questi qua, ma come gli viene.
Come possono pensare di voler barattare un prezioso giorno di vita sull’orlo del ricordo con un’immortalità tutta uguale?
Ma sarebbe ancora vita?
Ma come gli va di perdere il gusto del carpe diem, quando di attimi da cogliere ce ne saranno davvero troppi?
Ma non c’hanno paura di annoiarsi a morte (pun slightly intended)?
Aò ma l’hanno visto come finisce Hercules?
A pagina 54, prevedibilmente (dai, sono Gemelli, cambio idea ogni 3×2 per conformazione astrale) stavo già calcolando quanto avrei dovuto guadagnare (l’equivalente di un quadrilocale in Brera) e soprattutto risparmiare post-MBA per congelare in un bunker in Arizona la capoccia mia, di mia madre, mio padre, mia sorella e possibilmente del gatto, che andava immediatamente messo a dieta, altrimenti al 2028 non ci sarebbe arrivato. Si, ho la mente che vola a velocità spaventosa verso organizzatissime nevrosi di previsioni a catena, conseguenze di conseguenze di conseguenze, e la colpa è tutta della laurea in legge, mi dico io, e dell’ansia del calcolare anche oggi che è domenica quale ennesimo, inconcepibile comma si applicherà stavolta al nostro passo falso.
“Come transumanista non ho alcun rispetto per la morte. Mi infastidisce, non la tollero. Siamo una specie nevrotica proprio a causa della nostra mortalità, perchè la morte ci sta sempre col fiato sul collo“
Natasha Vita-More
(…a quanto pare no, non è colpa della laurea in legge)
l’autrice
E proprio questa mente nevrastenica, pensavo, la potevamo surgelare con l’azoto liquido e poi, in un futuro lontanissimo ma forse dietro l’angolo, eventualmente trasmigrare dentro un accessoriatissimo robot, senza mal di denti, tunnel carpale e cellulite. Quello stesso involucro elegante e artificiale che avrebbe portato la me cyborg finalmente in cima al Monte Kenya* (*irrealizzabile a caso in virtù della finitezza del corpo umano – o della strizza di crepare di mal di montagna).
Certo, sempre che sul Monte Kenya ci fosse ancora la neve. O la cima del monte. O che esistesse ancora il Kenya.
Natasha Vita-More, l’aforista, mi sta simpatica: è la moglie di Max More, ovvero il tizio a capo della Alcor Life Extension Foundation, ovvero la pseudo-azienda visionaria di cui sopra, dove in un capannone-surgelatore si impilano, in silos di titanio, corpi e teste di gente davvero ottimista.
Così ottimista da spendere la propria ingente pecunia a passare l’eternità come un tonno in frigo, in una fioca proposta di rinascita, un Lazarus effect dove non c’è niente di garantito, ne un quando, ne un dove, ne un perché, tranne il fatto che – nel dubbio – in attesa che si possano resuscitare i morti il corpo io glielo tengo da parte, signo’.
Essere una macchina, dando voce a tutti i variegati protagonisti del Transumanesimo, però, non ci racconta solo come ci si surgela e poi si diventa immortali: quello è sempre e semplicemente il fine ultimo. Si passa piuttosto attraverso vari livelli e approcci di distopico ottimismo – dal trasferimento della coscienza su software al biohacking nei bunker californiani, dai cyborg alle campagne presidenziali americane, dagli oscuri approcci di Calico, società di Google, alle premonizioni pseudo-apocalittiche di Elon Musk a riguardo – che pure ha lanciato Starman in orbita su una Tesla, quindi proprio umanista non è, direi.
A me – semplicemente – questo libro ha scaraventato davanti tutte le mie incoerenze, e messo a nudo nel freddo dicembre milanese la fragilità ridicola delle mie convinzioni.
A volte penso che non vorrei mettere al mondo figli perché non voglio dare una mia creatura in pasto a questo globo di folli fratricidi, di foreste incenerite, di antivaccinisti, di oceani plastificati, di piogge acide, di parlamentari in lotta con il congiuntivo.
Ma ho sinceramente considerato l’opzione di mettere in dispensa la mia testa recisa, la mia mente con l’ansia perenne, in una scatola d’acciaio in un deserto americano, per forse risvegliarmi un giorno in un corpo di latta, in un mondo senza tigri, senza ghiacciai, ma con auto volanti, gite su Marte
ed una noiosa immortalità.
Se non è un libro da amare da morire questo, ditemi voi che tocca fare.
*
Titolo | Essere una macchina:
un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte
Autore | Mark O’Connell
Casa editrice | Adelphi
Anno | 2018