Epicureismo spiccio spiegato ai danesi: Il pranzo di Babette
Siamo in tempi di magra e di Oscar. Due cose apparentemente slegate che però si trovano a braccetto in un caso più unico che raro nella storia del cinema: Il pranzo di Babette.
Pellicola danese che si guadagnò l’agognata statuetta come miglior film straniero nel 1987. Ai bei tempi di Madonna e delle sneakers sotto le gonne, di magra non se ne parlava manco sulle testate più pessimiste, manco nei più noiosi circoli intellettuali. Eppure, a conquistare Hollywood arrivò proprio un racconto di digiuno, privazione, astinenza. Una specie di inatteso successo quaresimale nel pieno della fiesta? No. Assolutamente. Perché a ben vedere Il pranzo di Babette non è altro che un elogio filosofico al piacere materiale.
Ambientato alla fine dell’Ottocento, in un minuscolo villaggio sulle coste danesi dove vivono due sorelle ormai anziane, figlie di un pastore protestante da cui hanno ereditato il ruolo di guide spirituali della comunità, al film non mancano i presupposti per spingere il pubblico a flagellarsi, bucarsi le mani con la biro, fare il fioretto di smettere di respirare. Per nostra fortuna, però, i novanta minuti di visione che ci attendono seguono pedissequamente la narrazione creata da una delle penne femminili più brillanti del secolo scorso: Karen Blixen. Sì, lei, la Blixen autrice de La mia Africa, la Blixen più volte candidata al Nobel per la letteratura ma mai vincitrice in ragione di presunti favoritismi (un po’ come il povero Leo di Caprio…ecco, l’ho detto). Fedele al racconto letterario fin dal titolo, la versione cinematografica de Il pranzo di Babette trae giovamento dall’impostazione classica della narrazione, coerente all’ambientazione, ai personaggi monodimensionali e alla trama, che è puramente funzionale alla trasmissione di un messaggio, è mero espediente per una riflessione. Molto nordico, molto efficace.
L’evento che origina la storia è l’arrivo, in questo contesto iperbarico, di una rifugiata parigina (Babette) che diventerà la governante delle due sorelle. Non si sa nulla di lei, né in realtà è necessario saperlo. Quello che ci basta vedere per comprendere il personaggio è il suo pianto silenzioso davanti al pasto a base di zuppa di pane e pesce essiccato che le verrà chiesto di preparare ogni giorno, per quattordici anni. Fin qui, autolesionismo con le biro autorizzato. Ma di lì a poco arriverà il vero sconvolgimento: la francese Babette vince la lotteria, ha l’occasione di rimpatriare, ma, contrariamente alle aspettative, decide d’impegnare la sua vincita in un pranzo. Con l’occasione del centenario dalla nascita del pastore luterano, padre delle vecchie sorelle, Babette si offre di preparare un banchetto francese con tutti i clismi. E il panico si diffonde nel villaggio. Gli abitanti impiegano i loro giorni desolati a scannarsi a vicenda con ripicche, liti e misere cattiverie, eppure il loro unico timore di bravi cristiani sembra essere quel pranzo. La loro unica preoccupazione spirituale è di non esprimere alcuna soddisfazione per i cibi esotici che Babette gli servirà. Peggio di una strega, la parigina misteriosa maneggia calderoni, fiamme, intrugli vari, uccide tartarughe e spenna quaglie. Addirittura, versa vino nei bicchieri (addirittura!)
Checché ne dicano bacchettoni, puritani e bigotti, per noi altri la comparsa di porcellane raffinate, posate d’argento, spezie, pasta sfoglia dorata e sughetti densi come vernice è rincuorante: il film ha ancora una chance per uscire dal baratro depressivo tipicamente scandinavo in cui ci ha catapultati. Bisogna avere fede, nel cinema come nella magia pagana della cucina. Ma non è certo necessario abbracciare il Pastafarianesimo per riconoscere a una lasagna o un arrosto un certo potere salvifico. Tanto per chiamare in causa menti illustri, Epicuro sosteneva (e con lui orde di golosi nei secoli a venire) che le nostre sensazioni sono alla base della costruzione della realtà e quindi della verità e del bene, per cui la felicità finisce per coincidere col piacere. Però sia chiaro, qui non si parla di dissolutezza. La sfilata dei piatti che la cuoca Babette porta in tavola è un perfetto esempio empirico della teoria epicurea: nonostante gli sforzi, forchettata dopo forchettata, la soddisfazione riempie gli occhi dei commensali; alla seconda portata, affiorano innumerevoli ricordi di bei momenti condivisi e, al dolce, gli screzi tra compaesani sono diventati confessioni d’amore. Senza mai sconfinare nella carnalità, il piacere del cibo ha travolto i loro spiriti, le loro brutture, la loro umana minutezza. “Rettitudine e felicità si sono baciate”, esattamente come succede nell’arte.
Babette ha scelto di rimanere senza un soldo in quella terra straniera, a mangiare zuppa di pane nero e birra per il resto della vita. Però, almeno un’ultima volta, ha potuto dare forma con le sue mani a una bontà altrimenti solo trascendentale, dimostrando che “l’artista non è mai povero”. E che – aggiungo io – in tema di bene e male, sublime e peccaminoso, abbiamo ancora tanto da provare (possibilmente, a tavola).
Quello sborone del Savarin
Il menù che Babette sceglie di servire ai puritani danesi è davvero il top dell’eleganza francese ai fornelli, una spacconata letteralmente da Oscar. Ora, non so dalle vostre parti, ma dalle mie il mercato non offre molte tartarughe da brodo, né mi sento particolarmente portata per la caccia alla quaglia. Eppure proprio loro, i pennuti minuscoli, sono al centro del menù di Babette. Tralasciando la questione dell’impronunciabilità della ricetta originale delle “cailles en sarcophage”, sono certa che profanerei con una versione alla “volèmose bene” un piatto a dir poco sacro, un fondamento dell’olimpo gastronomico d’oltralpe. Ecco, per queste e infinite altre ragioni, direi di dribblare le scomuniche e puntare al dolce. Che poi si sa, i francesi se la sbattono un sacco con la storia della pasticceria. E un motivo c’è.
Ingredienti per l’impasto:
- Farina Manitoba 250 gr
- Burro 185 gr
- Uova medie 4
- Lievito di birra 15gr
- Zucchero 50 gr
- Sale 10 gr
- Latte fresco intero 150 ml
Ingredienti per la bagna e la decorazione:
- Acqua 2 litri
- Rum 200 ml
- Zucchero 600 gr
- Scorza di 1 limone e di 1 arancia
- Confettura di albicocche, un paio di cucchiai abbondanti
- Panna o Crema
- Frutta fresca
Armatevi di pazienza e precisione: la faccenda è complicata. Per prima cosa va fatto il lievitino o biga, cioè l’impasto madre da cui prenderà vita il savarin. (Oh del resto mica bastava pane e nutella per stupire i bigotti danesi!). Scaldate un po’ di latte per scioglierci dentro il lievito e versatelo su una parte (circa 150 gr) della farina. Impastate, coprite, lasciate riposare e quindi crescere fino a che il volume non sarà raddoppiato. A quel punto aggiungete alla biga il latte, 2 uova e la restante farina. Impastate. Aggiungete poco alla volta il burro ammorbidito e lo zucchero. Poi, una alla volta le altre due uova, sempre impastando. Alla fine, il sale. Impastate ancora finché non sarà tutto liscio, morbido ed elastico. Mettete l’impasto in uno stampo imburrato da savarin o da ciambella piuttosto grande e lasciate lievitare ancora. Quando il volume sarà di nuovo quasi raddoppiato, infornate a 180 gradi per circa un’ora. Intanto preparate la bagna, simile a quella del nostrano babbà. Acqua, zucchero, rum, scorza di limone e di arancia tutto in infusione sul fuoco. Appena lo zucchero sarà sciolto spegnete e coprite. A parte, setacciate la confettura di albicocca e diluitela con un pochino di bagna. Quando il savarin sarà cotto e raffreddato mettetelo nella bagna calda, cospargendolo per bene perché assorba il tutto come una spugna. Alla fine, lucidatelo spennellandolo con la composta di albicocche diluita. Decoratelo con panna montata o crema chantilly (che fa molto francesi snob – puzza sotto al naso, specie se usate la sac à poche) e frutta fresca. A quel punto, con un simile capolavoro tra le mani, potrete andare in giro fieri a convertire all’epicureismo radical chic gli inappetenti di tutte le religioni. Pure i pastafariani.