Enemy e i ragni: fra Josè Saramago e Denis Villeneuve

Enemy e i ragni: fra Josè Saramago e Denis Villeneuve

Guarda come se la gode!

Arrivato ai titoli di coda di certi film non so mai cosa pensare, mi ritrovo semplicemente fermo a fissare lo schermo nero cercando di decifrare quello che ho appena visto. Mi trovo poi davanti ad un bivio: andare a reperire delle informazioni su internet che mi aiutino nella comprensione o, se il film mi ha colpito particolarmente, lasciarlo in standby, ragionarci un po’ su e successivamente rivederlo per cercare di trovare nuove chiavi di lettura. Ho seguito questa strada più volte, con risultati spesso soddisfacenti, ma quando mi son imbattuto in Enemy, seconda fatica Hollywoodiana di Denis Villeneuve, tutti gli sforzi si son rivelati vani.

Decisamente diverso dall’acclamato “Prisoners, il lavoro è un adattamento cinematografico del romanzo “L’uomo duplicato” di Josè Saramago. Partendo dal presupposto che fare la trasposizione di un’opera del portoghese, qualunque essa sia, è un’impresa impegnativa, visto lo stile di scrittura del suddetto, Villeneuve affida allo sceneggiatore Gullòn una riscrittura: la vicenda viene contestualizzata nei giorni nostri anziché negli originali anni 80’ dando così alla tecnologia un ruolo di primaria importanza nel film, il romanzo inoltre viene ripulito da quei passaggi introspettivi che caratterizzano la scrittura saramaghiana, risulta così sintetizzato all’osso e il finale viene completamente stravolto.

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Cercare di fare una sinossi esaustiva della pellicola è comunque tutto fuorché facile: il film si presenta come la storia di Adam, insegnante universitario che, per puro caso, scopre una persona identica a sè: Anthony. Il susseguirsi della vicenda non fa che continuare a insinuare dubbi nella mente dello spettatore che viene sballottato da un genere all’altro in una storia in cui i misteri anziché risolversi sembrano moltiplicarsi esponenzialmente.

Il punto di forza di questo lavoro sta proprio nella sua crescente cripticità, che etichetta il film nel genere del mindful-game, Villeneuve si confronta con coloro che hanno dato maggior fortuna a questo filone, da Lynch a Cronemberg prendendone in prestito le muse ispiratrici: la Rossellini e la Gadon.

Come ho già detto il catalyst di tutto ciò che noi vediamo è la scoperta da parte di Adam dell’esistenza di una persona identica a sé. Nella prima parte il film sembra svilupparsi come un thriller in cui la costante ricerca di indizi da una parte e dall’altra e i diversi pedinamenti mantengono alta la tensione.

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Punto di svolta è l’incontro tra i “sosia” durante il quale si insinua il dubbio che i due protagonisti siano in realtà la stessa persona, teoria poi rinforzata in diversi passaggi del film. Nella mente dello spettatore inizia quindi ad insinuarsi il dubbio che quello che sta vedendo non sia un semplice thriller, ma qualcosa di più; le vite dei due si mescolano, entrambi diventano intrusi nella quotidianità dell’altro e attraverso diversi intrecci amorosi si arriva al finale, definito uno dei più sconvolgenti di sempre in quanto tutto fuorché chiarificatore.

(S)Fortunatamente è lo stesso regista che in un’intervista decide di fornirci la chiave di lettura a questo film, egli infatti dichiara che la storia è in realtà molto semplice: non è altro che la decisione di un uomo di lasciare la sua amante per tornare dalla moglie incinta, vista dal suo subconscio.

Stando a quanto dice Villeneuve Anthony rappresenta l’Adam del passato, possiamo dedurre che abbia lasciato la moglie per trasferirsi in una nuova (ce lo fa capire la tenera mammina preoccupata nei primi secondi di film), abbia lasciato la professione di attore per dedicarsi completamente a quella di insegnante, e stia continuando una relazione (poco) stabile con l’amante. Questa dovrebbe essere la situazione di base da cui poi prende il là il film ambientato per intero nella mente del protagonista, che, insoddisfatto della vita attuale decide di tornare dalla ex moglie.

Parlando di subconscio è ovviamente impensabile non chiamare in causa il buon vecchio Sigmund e la sua teoria sulla tripartizione dell’essere.

L’Es è in questo film personificato da Anthony: è pura passione, frequenta locali notturni di kubrickiana memoria, vive di sotterfugi e tradimenti. Con lui le leggi della moralità non si applicano, è esente da ogni controllo, non ha limiti, è puro atto in quanto pura potenza (non a caso il film in cui viene scoperto da Adam ha il titolo di “Volere è potere”). Dall’ altra parte abbiamo Adam, l’Io, titubante e fortemente attaccato alla figura materna. Se Anthony è fuori controllo, Adam ne è l’opposto, si sente schiavo delle leggi che regolarizzano la società. Il controllo è per lui un’ossessione, tanto da incentrare le sue lezioni universitarie proprio su questo tema.

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Es e Io sono due figure agli antipodi nelle teorie freudiane così come Adam e Anthony lo sono nel film. Altamente esemplificativo è l’incontro tra i due nella camera d’albergo: il bianco e il nero, il timore dell’Io e la sicurezza dell’Es, le mani tremanti di Adam e l’aggressività di Anthony. Due poli opposti di una stessa cosa, la persona e il suo Doppelgänger, i due personaggi si riconoscono simili solamente nelle pulsioni erotiche, è proprio a letto che Adam sembra spogliarsi di quella sottomissione che lo caratterizza per diventare un po’ più Anthony. Giunti a questo punto manca da definire chi in questa pellicola rappresenti il Super Io. Esso si incarna nelle figure femminili del film, nella moglie e nella madre dei/del protagonisti/a, personificazioni delle catene morali ai quali i due sono attanagliati, il controllo dal quale non ci si può nascondere.

La figura più criptica della pellicola è però quella del ragno, questa simpatica bestiolina, per la gioia degli aracnofobici, compare in diversi passaggi: nella scena iniziale e in quella finale, nei sogni di Adam, nella creatura che sembra sovrastare la città. Per cercare di capire cosa la figura del ragno rappresenti bisogna appoggiarsi ancora una volta ad un intervento del regista: Villeneuve confessa infatti di essersi ispirato alla scultura artistica di Luise Borgeois, “Maman”.

Questa scultura è un tributo dell’artista nei confronti della madre, un’esaltazione della sua forza. Di rimando quindi la figura del ragno nel film di Villeneuve potrebbe rappresentare la madre, che, a sua volta, è simbolo del controllo. Secondo il più classico dei sillogismi dunque è ipotizzabile dire che il ragno simboleggi il controllo, questa teoria sembra essere rafforzata da alcuni passaggi del film: la scena iniziale, ad esempio, non a caso vede come protagonista Anthony, il ragno viene schiacciato a simbolo del predominio di questo personaggio sul controllo, al contrario nel finale Adam non si mostra per nulla terrorizzato dalla bestiaccia bensì rassegnato al potere che il controllo e le figure che lo esercitano hanno su di lui.

Analizziamo quindi il finale, definito tra i più spaventosi e scioccanti di sempre (e no, non centra solo l’aracnofobia) perché anziché fornire dei chiarimenti sconvolge completamente il film. L’ultima parte della pellicola è infatti un montaggio parallelo che sembra procedere in linea con la vicenda: troviamo la completa intromissione dei protagonisti uno nella vita dell’altro grazie all’identificazione che passa attraverso lo scambio dei vestiti, tema caro alla modernità, quella dei vestiti come indicatori di identità in una società sempre più materialista è infatti una tematica trattata nelle maniere più disparate (ricordiamo fra gli altri The talented Mr. Ripley). Anthony indossa i vestiti da scolaretto di Adam e Adam quelli da cattivone di Anthony, se il primo però riesce, in quanto attore, ad immedesimarsi nell’altro, Adam sembra a disagio e non riesce a mettere da parte la personalità premurosa e debole che lo caratterizza.

Questa sequenza culmina con l’incidente mortale di Anthony e con la completa sostituzione di Adam nella sua vita, il film sarebbe potuto finire così, avrebbe ovviamente suscitato dei dubbi, ma con la scena successiva Villeneuve complica incredibilmente la vita allo spettatore che è costretto a rimettere in dubbio tutte le supposizioni fatte nei precedenti 90 minuti.

Lo stesso regista confessa che con questo film assegna allo spettatore un ruolo di primaria importanza, come dice lui stesso:

I want them to be challenged, I want them to be excited by this enigma, I don’t want them to be frustrated. I hope they will have fun.

Il film è aperto a molte letture, anche quella proposta da Villeneuve non risulta del tutto chiara, Enemy è un enigma, un bellissimo enigma capace di rapirvi e tenervi incollati alla vicenda anche a visione conclusa.

Mario Rebussi

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