Elisa Talentino alla conquista del mondo | Una vita da illustratrice
Elisa ci accoglie nel suo studio. Scosta la tenda dell’ingresso con un gesto brusco, deciso, e dall’ombra del pomeriggio interno appare il suo mazzo fiorito di riccioli biondi. Ci accoglie nel suo piccolo mondo privato, che sa di caffè e di vernice, di legno ceramica e luce.
Ho incontrato Elisa in diverse vite, prima di unire i puntini e capire di aver avuto davanti sempre la stessa persona: l’ho incontrata leggendo online alcuni articoli del New York Times da lei illustrati;
sfogliando poi quotidiani e riviste, come Repubblica e La Stampa;
comprando libri perché ipnotizzata dalle loro copertine, da lei disegnate (NNE, e/o, add Editore);
inciampando incantata nelle vetrine delle gallerie d’arte del centro di Torino che esponevano i suoi lavori.
Mi sono sentita accerchiata e perduta, come in una battaglia di Risiko: e così, quando l’ho riconosciuta alla presentazione di Di ferro e d’acciaio di Laura Pariani – la cui copertina è stata da lei illustrata – alla libreria Il Ponte sulla Dora, le sono saltata addosso come una pulce e le ho chiesto di poterla conoscere.
«Sono di Castellamonte, un piccolo comune a nord di Torino. Sai che è la seconda città italiana, dopo Faenza, di importanza per la ceramica?»
Lo dice con un cipiglio orgoglioso – così, in questo studio luminoso e spartano, si apre il nostro incontro – come se avesse un’urgenza emotiva di spiegarci è da qui che provengo. Capirò presto che l’orgoglio, insieme ad una testardaggine quasi rabbiosa e nervosa, è il filo conduttore del suo temperamento, e così di tutta la sua storia.
«Disegno da sempre. Da bambina avevo chiaro in mente quello che avrei fatto – l’istituto d’Arte dopo le medie, e poi l’Accademia: quella cosa lì era definita. Così ho studiato ceramica alle superiori e poi mi sono laureata in Pittura.»
Mentre aspettiamo che esca il caffè – ed Elis Regina canta allegra in sottofondo – le chiedo di raccontare la sua storia. Indaffarata sopra la sua mastodontica macchina da serigrafia – Perdonatemi, non posso fermarmi ché altrimenti il colore si secca – ci racconta i suoi anni, le sue delusioni e le sue prime meravigliose conquiste. E mentre la ascolto assorta e la osservo lavorare, penso che assomigli proprio ad un animale selvatico: diffidente, orgogliosa, bellissima. «Ero una pittrice ibrida, in realtà, un po’ anomala: avevo un’impostazione grafica – quindi non ero abbastanza “pittrice” – ma non ero nemmeno una grafica vera e propria: non sapevo bene cosa fossi» – non è cane, non è lupo, sa soltanto quello che non è – «poi un giorno, durante un esame, il mio professore mi guarda negli occhi e mi dice: “Ma Elisa, tu fai illustrazione!”…Avevo venticinque anni.»
Inizia così il suo viaggio nel mondo dell’illustrazione: inizia a documentarsi, a sperimentare e ad affrontare i primi colloqui. Al Children’s Book Fair di Bologna le restituiscono il portfolio dicendole non sei ancora matura: «La mia autostima in quel momento è crollata. Ma a quel tempo avevo ancora le idee molto confuse: gli illustratori erano ancora prevalentemente confinati nel mondo dei libri per bambini ed io, a differenza dei ragazzi di oggi che a venticinque anni hanno già frequentato corsi di illustrazione e hanno già le basi, dovevo ancora scoprire tutto».
«Dopo quel primo rifiuto, però, ho capito che per fare l’illustratrice sarei morta di fame se non fossi riuscita a mantenermi, almeno all’inizio, in altri modi. Così ho iniziato a fare la cameriera ai Murazzi – in certi localacci, lavoravo fino alle sei di mattina – e nel frattempo mi sono avvicinata alla grafica, come succede a moltissimi illustratori. E, subito dopo, alla serigrafia.»
Il capitolo che si apre con l’incontro con la serigrafia mi sembra – dal suo tono che si indurisce e addolcisce come un’altalena; dalla piega emozionata delle labbra; dall’ammansirsi un poco dello sguardo – quello per lei più importante, delicato: «Lavoravo con il mio fidanzato dell’epoca. Faceva il grafico – era davvero molto bravo – e aveva cominciato ad interessarsi alla serigrafia perché gli piaceva la stampa: per fare delle prove usavamo i miei disegni, visto che io ero quella che disegnava di più. La serigrafia ordinaria, però, costava troppo per le nostre tasche sfondate: così andavamo nelle tipografie a chiedere vecchie pellicole usate – quelle delle pubblicità orrende – che poi raschiavamo col taglierino…sai, per riciclare gli acetati. Poi ci ridipingevamo sopra, con l’acrilico nero.»
Lo stile è arrivato dalla mancanza di mezzi: dipingendo su quelle «robe sporche» Elisa trova le texture che oggi caratterizzano i suoi lavori, che sono parte della sua cifra stilistica. Trova i suoi “sporchi“.
«Fondammo insieme un laboratorio di grafica, che si chiamava “Inamorarti” e stava in via Fontanesi. Chiaramente nessuna impresa ci prendeva sul serio – due venticinquenni campati per aria! – e quindi dovevamo essere noi ad andare di porta in porta a convincere le persone a farci fare le grafiche per loro: discoteche tamarre, bar per pensionati, locali zarrissimi…quando noi cercavamo di fare arte. Ma non ci sto sputando sopra, erano gli unici a darci credito, e fiducia.»
Per diversi anni i tre binari devono viaggiare in parallelo: il lavoro da cameriera, il laboratorio di grafica che a poco a poco riesce a conquistare un pubblico più «affine», il sogno di fare l’illustratrice. Fino a quando una piccola casa editrice indipendente di Torino, la Print About Me, decide di stampare il suo primo libro – “Le jardin d’hiver“, tutto serigrafato, ispirato al settimo capitolo del Gioco del mondo di Cortázar – e di presentarlo a qualche concorso: viene selezionato al Children’s Book Fair e all’Ilustrarte di Lisbona, ed è grazie a questo che un’altra casa editrice indipendente, la Inuit, le dà carta bianca per un altro lavoro – Elisa sceglierà di illustrare un racconto di Luisa Pellegrino sulla violenza sulla donna: nascerà “Bendata di Stelle” – e per una mostra a Bologna.
Per uno di quei ganci fortunati con cui la vita ti schianta, la art director del New York Times visita la mostra e si innamora delle sue tavole: «Il giorno dopo mi arriva una mail: “Vorresti lavorare per il NYT?”. Ho pensato fosse spam, non ci ho creduto.»
Mentre sorseggiamo il caffè che ci ha preparato – noto le sue bellissime tazze rustiche, medito su come portarmele via, mi ustiono la lingua: senza mandarlo giù subito, rifletto su come, nonostante l’incredibile talento da illustratrice, il caffè sia venuto una mezza ciofeca – racconta di come le cose, da quel momento, abbiano preso un’altra piega: «Dopo alcuni lavori con il New York Times, anche in Italia mi hanno dato un po’ più di fiducia. Spesso gli italiani, per riconoscere qualcosa, hanno bisogno che sia prima riconosciuta dagli americani.»
La storia di Elisa Talentino è la storia di una ragazza testarda, che non vuole cedere alla promessa di stipendio fisso di un lavoro in un’agenzia pubblicitaria e che perciò deve scontare il prezzo di chi sceglie di farcela da solo: «È stato difficilissimo restare a galla, ho fatto i salti mortali per mantenermi e per continuare a fare di testa mia: l’illustrazione è il lavoro meno pagato in assoluto, in questo mondo, e in Italia non investe nessuno. Negli Stati Uniti ho notato che c’è più spazio per tutti, perché c’è più richiesta, si investe molto di più nell’arte: ci sono un sacco di aziende che fanno lavorare artisti, scultori, pittori…perché poi queste cose si vendono. In Italia, invece, l’imbuto è strettissimo, soprattutto quello dell’editoria. Devo dire, però, che l’illustrazione sta tornando: i giornali, le case editrici cominciano ad interessarsi…perché hanno capito che l’illustrazione tira un po’ di più delle solite copertine con vecchie foto di repertorio…ma c’è ancora tanta paura di lasciare la solita vecchia strada, di rischiare, di reinventarsi.»
Elisa parla a ruota libera, anche se lungo il tragitto sicuro dei suoi discorsi ogni tanto si ferma, sospende la voce: come se, più che pensare a cosa sia meglio dire o tacere, si chiudesse all’improvviso, si rabbuiasse. Quando le chiedo che cosa sta leggendo in questi giorni, per avvicinarmi con dolcezza per dirle che non deve aver paura, mi racconta di come stia “investigando” sulle sue origini: «Sono cresciuta in campagna…Mi piacerebbe non perdere i ricordi, anche se non tornerei indietro per nessun motivo: purtroppo non ho più nessuno con cui parlare in dialetto…Sono cresciuta con le mie prozie, loro ci parlavano sempre in dialetto…Ora sto leggendo un libro sui miti e le leggende del canavese, sai? Quelle cose in cui si confondono religione, magia, i riti, le tradizioni» sorride, ridiamo insieme.
Mi racconta ancora dei suoi gusti musicali – da Elis Regina, che le si abbina molto, a Kevin Morby; della sua passione per “Harold e Maude”, per la Spagna e per Tilda Swinton; del suo amore per Casorati e Carol Rama. Del fatto che se non avesse fatto l’illustratrice le sarebbe piaciuto diventare erborista: le piante sono spesso frequenti nei suoi lavori, e quando glielo faccio notare precisa di corsa «Ma il mio non è puro decorativismo! L’elemento naturale non è mai fine a se stesso: so che piante sono, le studio, le scelgo in modo che accompagnino la narrazione per il loro significato, la loro simbologia…sai, su queste cose sono un po’ fissata» e puntigliosa, come su tutto il resto – penso io, senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce. «Oltre alle piante, e agli animali, quando dipingo penso che la figura umana, il corpo, sia per me la sfida più grande, e anche più affascinante e divertente. Non riuscirei mai a disegnare un paesaggio: a fotografarlo sì, ma non a disegnarlo. Penso che ogni cosa abbia il suo mezzo, e nel mio mondo il disegno è il mezzo per rappresentare la figura umana.»
So che è giunto il momento di lasciarla: so che si è aperta molto, che ha allentato la diffidenza, che si è lasciata accarezzare, ma che ora il tempo è scaduto. È ora di lasciarla al suo lavoro, al suo silenzio, al suo spazio privato: io e Angela – che ringrazio moltissimo per avermi accompagnata e aiutata – ci alziamo dai nostri sgabellini ancora emozionate, impacciate, guardandoci attorno per cogliere quanti più dettagli possibili. L’ultima domanda che le faccio, prima di ringraziarla per aver accettato di incontrarci, è naturalmente sul futuro, sui suoi progetti, i sogni: «Ora sto lavorando a un libro, un progetto personale…anche se è tutto ancora a livello embrionale, ce l’ho in mente» fa la caustica, ma si vede che è molto emozionata all’idea. «Sarà un libro tutto illustrato, accompagnato da parole mie».
Quando riemergiamo sul marciapiede fuori, l’aria è silenziosa – ha appena smesso di piovere – e odora di polvere umida e platani allegri. Il Borgo Rossini si ferma, c’è solo un vecchio per strada, che cammina adagio.