Elegia delle Dolomiti, dalla finestra di un rifugio
Eravamo bambine con la frangetta e bambini col marsupio.
A Luglio, finito il centro estivo oratoriale, venivamo caricati su un autobus con audiocassetta di Ligabue bloccata da sempre nell’autoradio e portati in qualche casa diocesana su in Trentino per respirare aria buona, vedere un po’ di montagne e imparare ad arrangiarci. Ci intrattenevamo con escursioni, giochi nel bosco che duravano interi pomeriggi e bivacchi serali autogestiti.
Non eravamo scout, non sapevamo accendere fuochi né montare tende ma imparavamo a vivere i tempi della montagna, seguivamo i torrenti fino alla sorgente, riconoscevamo i sentieri nei boschi e invadevamo rifugi per pranzare, dormire o solo celebrare scenografiche messe nella cornice maestosa delle Dolomiti di Brenta, o lì intorno.
Eravamo ingenui ragazzini provenienti da un mix di paesi vicini, il che scatenava inevitabilmente pubblici fidanzamenti tra i belli e primi momenti di tremendo imbarazzo tra i meno belli.
In questo eterno Sussidiario illustrato della gioventù nessuno di noi ingrati badava minimamente allo spettacolo commovente che le montagne mettevano in scena ogni giorno per noi, spalancando quel gigantesco pop-up di vette ora Patrimonio dell’Unesco.
Tornare lassù oggi significa prima di tutto stupirsi di non aver mai badato a nulla, in quelle notti passate ad alta quota a trafficare con torce e cadere da letti a castello. Vuol dire finalmente accorgersi dell’incredibile altezza delle cime, dei fiori piccoli ma tenacissimi che spuntano sulla nuda pietra dolomitica, del colore delle rocce che varia dal bianco al verde scurissimo fino al quel rosa incredibile, memoria del tempo ancestrale in cui quelle pareti non erano altro che barriera corallina.
Salire ora significa anche aspettare il tramonto o alzarsi all’alba per assistere all’enrosadira (dal ladino rosadüra o enrosadöra), il piccolo miracolo per cui nelle prime e nelle ultime ore del giorno le rocce dolomitiche si infiammano di rosa e rosso, fino a tingersi di viola.
La leggenda racconta che Laurino, re dei nani, avesse uno splendido giardino di rose sul monte Catinaccio (Rosengaten) fino al giorno in cui il principe Latemar, attirato dal roseto, si introdusse nelle sue terre e rapì Ladina, figlia di Laurino, per sposarla. Da allora re Laurino lanciò una maledizione sul giardino e decise che nessun occhio umano avrebbe potuto più vederlo né di giorno, né di notte, ma dimenticò il tramonto e l’alba, da allora in tutte le sue terre è possibile ammirare l’enrosadira solo nelle prime ore del mattino o al crepuscolo.
Salita da un percorso tanto battuto quanto immortale come la tratta tra i rifugi Vallesinella, Casinei, Brentei sono approdata al Tuckett poco prima che scoppiasse un temporale e che tutta la scenografia di rocce entrasse definitivamente in una coltre grigia.
Ora vedo le nubi fuori muoversi veloci e i fiori alle finestre agitarsi al vento, proprio lì dove qualche giorno fa un’orchestra si esibiva per I suoni delle Dolomiti. Penso che se il tempo continua così non contemplerò nessun tramonto ma mi cade l’occhio su un mazzo di rose tatuate sulla spalla della cameriera che mi serve la birra e per un secondo penso di chiederle se abbia scelto di tatuarsi il giardino di re Laurino per le mille enrosadira viste da questo posto epicamente sperduto.
Continua a piovere e la sala si riempie di gente in cerca di riparo, tra taglieri di salumi, birre medie e cioccolata mi stupisco di quanto in questi posti tutto resti identico negli anni, dal libro dei visitatori del rifugio al timbro, dai souvenir discutibili alle ciabatte da indossare, altrettanto orribili ma sempre di rito qui.
Entrano molti tedeschi, altrettanti italiani, molti consultano le carte per il giorno successivo, altri giocano rumorosamente a Risiko contendendosi l’Europa Meridionale, ci si scambiano consigli e si confrontano itinerari mentre la cucina scalpita per servire la cena, rigorosamente tra le diciotto e le diciannove, per poi spegnere tutte le luci entro le ventidue.
È bene dormire presto, domani bisognerà risalire faticosamente la bocca di Tuckett e riscendere per un breve tratto in direzione Molveno attraversando poi in quota tutto il versante sul Sentiero Osvaldo Orsi, un paradiso di ghiaioni e cenge impervie che, passando per il rifugio Tosa Pedrotti, porta alla bocca di Brenta e al suo più docile nevaio.
Da lì apparirá a breve la chiesetta del Brentei e, poco dopo, il rifugio, annunciato da un vociare di gente salita da Madonna di Campiglio e impegnata a ripiegare in più modi cartine impossibili da chiudere.
Dopo cena la pioggia cessa improvvisamente e un accenno di tramonto fende le nubi sopra l’Adamello accendendo di un rosa tenue le rocce e il nevaio che mi aspettano domani, ecco il buon auspicio e il piccolo regalo delle mie montagne.
Buonanotte Bocca di Tuckett e buonanotte Dolomiti di Brenta, arrivare quassù è sempre un privilegio.