El Bar: Divina Commedia by Álex de la Iglesia
Regia: Álex de la Iglesia | Anno: 2017 | Durata: 102 minuti
Non si parla mai di Álex de la Iglesia. E questo non va bene.
Álex de la Iglesia è quella persona in grado di prendere un gruppo di condòmini, degli artisti circensi, dei criminali in fuga e ridurre tutto al loro minimo comune denominatore: la violenza. Non la violenza spettacolare e coreografica di Tarantino, e nemmeno la violenza gratuita e oscena di Alex di Arancia Meccanica. No, è una violenza perfettamente spiegabile: siamo bestie, pentole a pressione cariche di istinti animaleschi che cercano solo di venire fuori.
Avete presente Carnage di Polański? Ecco, de la Iglesia fa film simili ma invece di dare sfogo all’aggressività dei suoi personaggi tramite dialoghi arguti, lo fa con spranghe, ruggine e fango sotto le unghie. Non a caso, quando gli spagnoli hanno acquistato i diritti per fare il remake di Perfetti sconosciuti, è il suo nome quello che è uscito dal cilindro.
El Bar, distribuito da Netflix, riprende la medesima struttura applicandola, come i più astuti di voi avranno colto dal nome, ad un gruppo di avventori di un bar nel centro di Madrid. Gli otto protagonisti (o meglio: sette più uno, tenetelo presente perché dopo ci torneremo) si troveranno presto bloccati all’interno del suddetto bar da una minaccia esterna che li costringerà a dover trovare un modo per sopravvivere: a ciò che sta succedendo fuori appunto, ma anche e soprattutto a quello che accade dentro, tra di loro.
La scelta di chiudere i propri personaggi in uno spazio ristretto e farli interagire l’ho sempre trovata ammirevole: da 10 piccoli indiani al miglior Tarantino, è il vero banco di prova per ogni cineasta. Senza poter barare con effetti speciali pirotecnici o struggenti paesaggi atti a distogliere l’attenzione da trame inesistenti (capito Iñárritu?), registi, sceneggiatori e tutti i mestieranti coinvolti devono riuscire a trasformare il film in una pièce teatrale in cui lo spettatore possa immergersi. O quello, o la noia.
Per fortuna de la Iglesia è uno che ha strappato la voce “noia” dal suo vocabolario quando aveva cinque anni e, sbrigate le formalità iniziali per introdurre i personaggi ed assegnare a ciascuno la propria parte in commedia, il film è tutto in discesa.
Non uso la parola “discesa” a caso.
El Bar, come la maggior parte dei film di questo stampo, è innanzitutto un’immersione nella psicologia umana e nella dinamica di gruppo. Ciò che infatti fa de la Iglesia è mettere insieme dei personaggi, appiccicargli addosso un ruolo (la casalinga, il poliziotto, l’hipster, ecc.) e lasciare che poi le cose vadano da sé, mentre lui sghignazza in sottofondo. Naturalmente le cose andranno sempre peggio e man mano che il film procede le azioni compiute dai personaggi diventeranno via via più infime e grette, facendo venire a galla le loro reali personalità.
De la Iglesia sottolinea questa discesa nell’animo umano – che ci aspetteremmo in questo tipo di film – con una discesa fisica verso il mondo ctonio, quasi fosse la scampagnata dantesca ai piani inferiori. Ognuno dei tre tempi canonici che scandiscono un film è infatti ambientato in un luogo diverso, più basso e degradato del precedente: dal bar si scende in cantina, dalla cantina ci si cala nelle fogne.
E in ognuno di questi livelli, de la Iglesia – con un occhio sempre rivolto verso l’exploitation – utilizza un registro diverso: partito quasi come una black-comedy, il film scivola poi verso il thriller fino a diventare, nell’ultimo atto, un vero e proprio slasher, con tanto di “demone” che perseguita e bracca i sopravvissuti. De la Iglesia gestisce perfettamente almeno due di questi generi, ci gode a tormentare i suoi protagonisti e ad indugiare sui loro corpi sempre più piagati, spogliati e trasformati, e, salvo appunto un leggero ma comunque evidente gigioneggiare nella fase centrale, non si ha mai la sensazione che il film gli sia scappato di mano.
Un film così è per forza di cose anche allegoria e spaccato della società: essendo il set un sistema chiuso e autosufficiente, questo diventa un microcosmo che riflette la realtà tutta. Ecco quindi che ognuno dei protagonisti al di sotto della maschera è in realtà espressione di un ruolo più universale, un peccato più ampio. La ludopatia della casalinga ad esempio l’ascrive alla categoria degli avari, l’ex-poliziotto cela un passato da alcolizzato (gola), e così via…persino il mite cameriere in più di un’occasione fa trasparire l’invidia che in realtà serba nei riguardi dei propri compagni.
Se i sette protagonisti sono le cavie del macabro esperimento sociale di de la Iglesia e portano avanti la trama interagendo secondo dinamiche tutto sommato prevedibili, l’ottavo personaggio – il barbone Israél (pazzesco mash-up tra il giardiniere Willy dei Simpson e Gollum) – è invece una scheggia impazzita, un folletto, uno yōkai che raccoglie tutti i peccati e ne diventa massima espressione e che, come Salvatore de Il nome della Rosa – o il diavolo che forse rappresenta in quest’inferno dantesco – porta contemporaneamente ordine e caos nel sistema.
Per tutta la durata del film non si capisce chi tifare, né è chiaro da che parte si schieri questo regista iberico tutto matto: dobbiamo sperare che uno dei sette riesca a scampare o è giusto che espiino tutti nella maniera più truculenta possibile? Israél è strumento nelle mani del regista o suo avversario? Il finale è un augurio o una resa?
Vedetevelo e poi fatemi sapere.