East River, lo spazio emozionale di Marc Grey
Se siete stati viaggiatori solitari oppure migranti per necessità o vocazione (come me), conoscete questa senzazione. Arrivate in una città nuova e siete eccitati e persi allo stesso tempo. La girate, seguendo percorsi tracciati da altri o lasciandovi portare dal vento nelle ruote di una bicicletta, la esplorate. E dentro di voi sentite un misto di varie sensazioni, alcune positive, altre negative: quale lato prevarrà dipende solo dalla nostra attitudine. C’è la gioia dell’esplorazione, il brivido di farla in solitaria, dettando i propri ritmi (io, per esempio, cerco sempre di autoinfliggermi la lentezza, che per me è sommamente difficile); c’è la voglia di scoprire e di conoscere; ma c’è anche quel sottile sentimento negativo (non posso chiamarla tristezza: chiedo supporto agli amici linguisti sparsi per mondo), quella lieve sensaziona di ansia in mezzo al petto: la città così grande intorno a noi e noi, fondamentalmente, soli.
È questo connubio che ci spinge a voler condividere le esperienze ed a formare una rete capace di plasmare lo spazio fisico-cittadino fino a renderlo uno spazio emozionale. East River di Marc Grey parla proprio di questo. Non servono parole, basta seguire i percorsi del protagonista: il suo perdersi nella folla, sedersi soddisfatto su una panchina, girovagare senza meta nei sobborghi di erbacce e muri scrostati. Il paesaggio urbano si fa paesaggio emotivo del protagonista, finché non avviene l’incontro con una ragazza (il primo ruolo di Lupita Nyong’o). Ed allora lo spazio interiore si allarga a contagiare e modificare lo spazio esterno, dove anche la pioggia può diventare un parco giochi.
Il regista ci porta lungo le strade di Brooklyn e di New York, capaci di diventare all’occasione inclusive o alienanti. Il corto inizia con un treno (la metro sopraelevata che esce da Manhattan), simbolo dello scorrere inesorabile delle cose, già usato da molti (uno su tutti, il Boss). La regia ed il montaggio si adattano al paesaggio emotivo del protagonista, seguendolo in ogni su cambiamento. Non ci sono dialoghi, ma un ottimo lavoro sul comparto sonoro che sottolinea i passaggi emotivi e cittadini sulla spalle (e dentro le spalle) del ragazzo.
Che siate viaggiatori o migranti, sapete di cosa parla questo cortometraggio. Parla di noi (sì, di me e di te), di come la città possa essere amica o straniera e di come la condivisione possa cambiare tutto, anche lo spazio esterno. Fino a quella porta, a quel gesto (bellissimo) che segna la fine del cortometraggio. Siamo pronti per la prossima città, il prossimo viaggio, la prossima persona?