“E scivola il sole al di là delle dune”: il confine

“E scivola il sole al di là delle dune”: il confine

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Soltanto trenta chilometri separano Hebron da Gerusalemme, quanto basta per rendere la città palestinese una terra di confine. Con una frequenza disarmante, le strade della città vecchia di Hebron, dove passa la linea di frontiera tra la zona di controllo israeliano e quella in mano ai palestinesi, diventano teatro di rappresaglie e scontri violenti tra quelle che, paradossalmente, sono le due anime di una stessa città.

Hebron sembra essere la traduzione concreta del termine “confine”, limbo tangibile di un conflitto di immemorabile origine eppure comune luogo di pellegrinaggio per le principali religioni monoteiste. Secondo i testi sacri, infatti, sembra che Abramo vi abbia seppellito la moglie Sara e che David vi sia stato incoronato re d’Israele – per citare gli esempi più noti. Se non sorprende, quindi, che musulmani, ebrei e cristiani venerino la Tomba dei Patriarchi, si rimane attoniti nello scoprire il grado di implacabile violenza ed odio razziale a cui può condurre l’integralismo religioso quando è sinonimo di fanatismo, come abilmente riprodotto nel documentario di Giulia Amati, This is My Land…Hebron.

Il film racconta senza mezzi termini quella che è la quotidianità di Hebron, una terra santa ma contesa da troppi, una terra in cui la paura che dilaga per le strade palestinesi viene avvertita anche dallo spettatore seduto in poltrona. Ed è per le vie di Hebron, sul campo di battaglia, che vi porteremo attraverso la sezione Travel di questo numero: in una terra in cui la contraddittorietà dell’animo umano non conosce confini.

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Eppure, non tutti i confini sono delineati da cemento e filo spinato, alcuni sono semplicemente tracciati da un’immaginaria linea di difficile individuazione, come quella che segnala la zona di confine tra scienze della natura e scienze dell’uomo, in cui si colloca Flatlandia, una curiosa novella scritta nel 1884 dal reverendo Edwin Abbott Abbott (il primo “Abbott” fa parte del nome, il secondo è il cognome, ndr).

Flatlandia è un libro di confini, a partire dalla difficile collocazione in uno specifico genere letterario, spaziando dal trattato filosofico a quello matematico, ma il testo si rivela anche una critica ironica verso la società vittoriana, una provocazione polemica nei confronti del positivismo che ancora regnava alla fine del XIX secolo. Al confine tra satira e didattica, dunque, la penna di Abbott narra le vicende di un mondo bidimensionale – dove gli alberi sono piatti e di colline nemmeno l’ombra – in cui la tranquilla esistenza di un Quadrato viene sconvolta dall’incontro con una Sfera.

Da essere “illuminato” quale si dimostra, il nostro Quadrato è in grado di cogliere anche la terza dimensione e, addirittura, di interrogarsi su altre possibili dimensioni, alla ricerca di risposte che vadano oltre i confini della sua bidimensionale esistenza.

Il confine, del resto, non è soltanto una barriera, ma è anche la porta d’accesso verso tutto ciò che sta “oltre”, incarnando la fatale attrazione per l’ignoto che contraddistingue l’animo umano. “L’altrove è uno specchio in negativo” si  è detto, uno strumento attraverso cui si riconosce la miseria di ciò che si ha e si anela inesorabilmente a ciò che non si ha e, forse, non si avrà mai.

Al contrario, il confine può rappresentare una difesa, una protezione dall’imprevisto: ultimo baluardo per restare al sicuro nelle nostre certezze. Il confine non sempre è sinonimo di limite, può intendersi semplicemente come cambiamento, una variazione morfologica o di significato, come si percepisce nella pellicola di Kim Ki-duk del 2003, Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera. Si tratta di un film quasi interamente racchiuso nei confini di uno spazio ben delineato, in cui l’eremo galleggiante del Maestro regna indisturbato sulle acque statiche di un lago.

Curiosamente, le porte del monastero buddista non sono in prossimità delle pareti, a sottolineare il confine tra dimensioni ideali piuttosto che delimitazioni funzionali, in un percorso conoscitivo che accompagna il protagonista dall’infanzia all’età adulta. Il regista riesce ad incastrare con superba abilità gli aspetti più drammatici dell’esistenza umana alla quieta religiosità del monastero, lasciando lo spettatore piacevolmente sorpreso di trovarsi davanti ad una forma concreta di spiritualità.

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Ma se il confine rappresentasse anche un’implicita rinuncia? Ostacolo o difesa? Opportunità o privazione? Ascoltando White Rabbit dei Jefferson Airplane sembra che l’unica via d’uscita sia evadere da un mondo in cui nulla è come sembra ed è sempre necessario andare oltre le apparenze, superare il confine, seguire il Bianconiglio del celeberrimo racconto di Carroll.

Era il 1967 quando la band californiana pubblicò il secondo album Surrealistic Pillow, un classico che va ben oltre i confini della psichedelia. Di certo, i Jefferson Airplane non esitarono a varcare il limite e si fecero ben presto portavoce della nascente ondata di controcultura che avrebbe investito gli anni Settanta. Ed è proprio abbandonandovi su un “cuscino surreale” che il gruppo rock di San Francisco vi invita a lasciarvi cullare dalla serena Today, incoraggiandovi ad offuscare il vostro personale confine tra conscio ed inconscio, per scoprire cosa si nasconde “al di là”.

Del resto, “Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori” scriveva Calvino.

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