Dunkirk, fra aerei miracolosi e tempi sfasati
Lo devo ammettere: non sono un grande fan di Christopher Nolan. Ritengo che la maggior parte dei suoi film sia sopravvalutata, da una frangia impertinente di critici e fruitori pseudo hipster. Questo mio preconcetto (lo ammetto) e la critica che OSANNA (come sempre) il nuovo Dunkirk, mi hanno fatto arrivare all’anteprima del film di animo non esattamente ben disposto.
Ciononostante il film mi è piaciuto.
Dunkirk ha molti punti di forza e poche debolezze, che lo rendono in assoluto il film migliore di Nolan, quello più coeso ed ispirato, senza abbandonare quella sua nota personale un po’ cervellotica (quella che piace agli hipster, per capirci). La Storia, infatti, viene raccontata attraverso le storie di alcuni dei protagonisti, inseriti all’interno di 3 linee temporali e spaziali separate e distinte (di durata diversa), che collimano solo alla fine in un punto comune. Come ha sempre amato fare, fin dai tempi di Memento, il regista gioca con il tempo e con il concetto di tempo cinematografico e lo fa senza in alcun modo appesantire la fruibilità di un film intenso, ma senza eccessi. Certo, esplicita il meccanismo subito, con tanto di sottotitoli; ma è dovuto al fatto che il pubblico statunitense non capirebbe granché, altrimenti.
I protagonisti seguono una sceneggiatura ristretta all’osso, dove i dialoghi latitano lasciando spazio all’abilità espressiva e di movimento degli attori. Su tutti spicca, come sempre, lo strepitoso Tom Hardy, che mette (di nuovo) la maschera per Nolan e recita per la maggior parte del film solo con gli occhi. E lo fa splendidamente. Emoziona seguire il suo sguardo mentre prende la decisione di continuare a combattere, nonostante il carburante stia ormai finendo. Caratteristica di tutti i personaggi (meno uno, forse) è non avere una backstory ed essere presi nel mezzo dell’azione. Non sappiamo nulla di chi sono (nemmeno i nomi, spesso), né da dove vengano. Li conosciamo per quello che fanno, non per quello che dicono o sono. Il cinema di Dunkirk è pura azione, che riporta il cinema alla sua origine primigenia. Difficile trovare un’opera così scevra da sovrastrutture scritte, ad Hollywood.
Tagliando ulteriormente i ponti con i maestri ed i predecessori, inoltre, Nolan decide di andare in direzione contraria rispetto al “paradigma Spielberg”. Da Salvate il Soldato Ryan in poi, infatti, il cinema aveva mostrato la guerra nella sua cruda realtà. Con pochissime eccezioni (La Sottile Linea Rossa, di Malick, a cui Nolan deve più di uno spunto nella costruzione concettuale del film), gambe mozzate, urla disperate ed intestini sono stati all’ordine del giorno nelle scene di battaglia, uniti ad un montaggio serrato e sincopato. Niente di tutto questo si vede in Dunkirk. Dopo le bombe i cadaveri sono ben ordinati sulla spiaggia. Il terrore si legge negli sguardi dei protagonisti e nei suoni, ma non una goccia di sangue viene versato. Il realismo cede il passo all’esistenzialismo, non meno crudele. Ed il nemico non si vede mai. Solo proiettili e le sirene, terribili, dei caccia tedeschi in picchiata. Il montaggio alterna momenti ad altissimo ritmo che mescolano i tre piani temporali, con altri di maggiore quiete, dove i campi lunghi diventano padroni dell’ottima fotografia. Non è, comunque, il ritmo della battaglia, quanto il ritmo del tempo, grande protagonista del film.
Oltre a Tom Hardy, la cosa migliore del film è il sonoro. Martellante e senza respiro, alterna i rumori della battaglia ad una colonna sonora potentissima, ad opera di Hans Zimmer. Nessuno spazio al patetismo musicale, la colonna sonora segue il film e lo accentua, ne rende più forti le scene, con brani a tratti al limite della cacofonia, adeguatissimi alla storia. Un ticchettio quasi continuo ci afferra alla prima scena e non ci molla quasi mai, rimane sotteso, quando i rumori lo sovrastano, ma presente. Campionato dall’orologio di Nolan (così raccontano), è il suono del tempo. Che manca. Che scorre. Che si intreccia e sfreccia come proiettili di uno Spitfire.
Il film presenta anche, però, alcune pecche, che la critica (soprattutto statunitense) ha evitato di nominare. Innanzitutto, il film pecca di quel pietismo eroico in cui inglesi ed americani adorano sguazzare. La sobria narrazione cede il passo, sebbene per pochissimo tempo, nel finale, all’eroismo. Si poteva evitare. Diciamo che non si scade nell’amore che vince la gravità, ma comunque in una patria buona e salvifica (peraltro la Storia racconta una cosa un po’ diversa, con francesi sacrificati per favorire la ritirata e poi lasciati a terra). Sempre nel finale, l’aereo di Tom Hardy prende il volo e diventa una sorta di metaforone divineggiante. Plana per intere ore, abbatte caccia pur rimanendo senza carburante ed atterra sulla spiaggia (lunghissima), senza un graffio. Eccessivo. Il finale, nel complesso, perde il buon ritmo del resto del film e si prende in qualche eccesso di troppo, che fa aggrottare più di un sopracciglio. Si tratta di piccoli peccati, che però svirgolano il tiro di un film di guerra (sui generis) quasi perfetto.
Voto: 8