La penultima cosa da mettere nello zaino prima di ogni partenza è una barretta di cioccolato. L’ultima, un libro ambientato nel posto per il quale si sta partendo.

Parigi sarà per me per sempre legata a Festa mobile di Hemingway, all’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein e a Memorie di una ragazza perbene di Simone de Beauvoir; la mia amicizia con Londra, la devo al leggendario 221B di Baker Street nonché alle pagine di Alta fedeltà di Nick Hornby, che rileggevo alla sera in hotel cullata dal rollio insonne dei treni a Victoria Station; ho amato Lisbona ben prima che il mio aereo vi atterrasse, già innamorata com’ero di José Saramago e del suo Storia dell’assedio di Lisbona.

E, pur non essendoci ancora stata, Istanbul e San Pietroburgo le sento già un po’ mie, grazie alla complicità di Orhan Pamuk, dei racconti di Gogol’ e di Anna Karenina.

LEGGI ANCHE  Luci a San Pietroburgo, di quella sera. Scrittori, poeti, pittori e compositori

Quando si è trattato di preparare lo zaino per Dublino ho subito pensato a James Joyce, che a dire il vero è solo il primo di una lunga lista di scrittori irlandesi: Oscar Wilde, Samuel Beckett, W. B. Yeats, Jonathan Swift, Bram Stoker, Séamus Heaney, George Bernard Shaw…E così, non avendo avuto il fegato di scegliere l’Ulysses, ho portato con me il piccolo Dubliners (Gente di Dublino).

Si tratta di una raccolta di quindici racconti brevi, disposti e ordinati in quattro gruppi secondo l’età dei rispettivi protagonisti – Childhood, Adolescence, Maturity e Public Life – e orbitanti tutti attorno alla capitale irlandese: alle sue strade, ai suoi umori, alla sua società. Quindici racconti sulla vita ordinaria di persone ordinarie nella ordinaria cara sporca Dublino.

Ciò che accomuna le quindici storie è la paralisi dei loro personaggi, che si dimostrano del tutto incapaci – per mancanza di coraggio o perché addirittura inconsapevoli – di sciogliere le catene che li inchiodano ad una vita insoddisfacente: siano queste la famiglia o la religione, la cultura oppure i vincoli sociali.

Ogni racconto si apre in medias res e procede spedito verso la propria epifania, il proprio climax, per poi immolarsi puntualmente sull’unico epilogo possibile, il fallimento: come una biglia che rotolando su un pavimento di cotto all’improvviso si fermi.

Nessun narratore onnisciente interviene a filtrare l’intensità dei racconti: quella di Joyce è la via dell’introspezione, è la voce diretta dei suoi disperati human being a raccontare se stessa. In questo modo quindici racconti finiscono per significare quindici prospettive, quindici voci, quindici tecniche narrative diverse che cambiano a seconda dell’età, della classe, del ruolo sociale dei diversi protagonisti.

Quindici incursioni nella mente di quindici solitudini. Quindici sassi lanciati in quindici pozzi profondi: sembrerebbe Spoon River, se non fosse che qui i personaggi sono condannati ad agire da vivi.

The Liffey Swim, Jack B. Yeats (1923), The National Gallery of Ireland

Zaino in spalla per le vie del centro di Dublino, con una cartina stropicciata su cui campeggiano i miei isterici cerchi a pennarello attorno ai nomi delle sue principali attrazionimi tornano in mente le voci dei racconti letti in aereo e sull’autobus che dall’aeroporto mi ha lasciata al Trinity College: proprio davanti a quest’angolo di strada sono passati Lenehan e Corley, i due galanti dell’omonimo racconto, mentre discorrevano rozzamente di donne e di ricchezza; e suppongo che il parco della scena finale di Un caso pietoso sia il poco distante, immenso Phoenix Park, o magari il più addomesticato e cortese St. Stephens Green.

Attraversando poi l’Ha’penny Bridge sul fiume Liffey alla ricerca di un buon posto per assaggiare la famosa colazione all’irlandese – i cui resti vengono immortalati da Joyce sul tavolo della pensione di Mrs. Mooney: uova strapazzate, pancetta, croste di pane, burro – mi viene il dubbio di essermi persa l’arco feudale del King’s Inn, all’incrocio con Henrietta Street, sotto il quale passa il “piccolo” Chandler, protagonista di Una piccola nube, emozionatissimo all’idea di rivedere un suo vecchio amico che ha girato il mondo e avuto successo.

LEGGI ANCHE  Le ceneri di Angela | Frank McCourt

Ma è solo davanti alla mia ambita porzione di pancake, salsiccia e pancetta, immersa nell’aria accaldata e sovraeccitata di un pub nei pressi dell’O’Connel Bridge – all’angolo del quale un trafelato Farrington aspetta il suo tram per Sandymount nel racconto Rivalsa – che ho modo di ripensare con calma ai miei tre racconti preferiti: Arabia, Eveline e Polvere (e taccio a proposito dell’ultimo racconto, I morti). In essi compaiono più coraggiosamente che altrove – accanto alle immancabili solitudine, frustrazione, prigione – anche amore e tenerezza, passione e compassione.  Ma più in generale Joyce mi ha richiamato alla mente il Raymond Carver di Da dove sto chiamando e Trilobiti di Breece D’J Pancake: anche in loro tenerezza, frustrazione, angoscia, commozione e disperazione sono cuccioli che giocano a rincorrersi fra loro, mastini pronti sbranarsi a vicenda.


(adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({});

Mentre esploro Dublino, i personaggi di Dubliners mi vengono incontro come mansueti fantasmi, come spiritelli gentili o scorbutici: sbucano da un muro di mattoni rossi a bella vista, da una porta dipinta di verde bottiglia o di blu, da un angolo chiassoso di Temple Bar, per raccontare la loro storia inconsapevole la storia di chi è vissuto sognando per tutta la vita una vita diversa, di chi ha creduto che il mondo fosse tutto ad un passo ma sempre irrimediabilmente oltre Dublino.

La città intera mi sembra presto abitata solamente da loro: sui bus gialli a due piani, in una piccola libreria sull’Ormond Quay, la Winding Stair, nei negozietti lungo Grafton Street che si preparano a festeggiare San Patrizio, in mezzo alla folla di tifosi di rugby accalcati nel più fumoso dei pub, sono solo i loro volti che incrocio. La città intera è per me un accondiscendente set cinematografico, quasi un santuario.

LEGGI ANCHE  Atmosfera Irlandese

 

Titolo | Dubliners

Autore | James Joyce

Anno | 1914

Pagine | 213

 

NO COMMENTS

Leave a Reply