Don’t Look Up: forse non ho capito niente
Regia: Adam McKay | Anno: 2021 | Durata: 138 minuti
C’è una scena in Don’t look up, durante un raduno di persone che rifiutano l’arrivo imminente della cometa che dovrebbe distruggere la Terra, in cui uno di suddetti complottisti cambia idea perché guarda in alto e vede la cometa. E io che pensavo che, bombardati come siamo da filmati dagli ospedali in cui lumache antropomorfe a un passo dal trapasso continuano a rifiutare cure e a negare l’esistenza di un virus, avessimo capito che la partita negazionisti/normali si giocasse a un livello più profondo e complicato del “vedere per credere”. Evidentemente mi sbagliavo.
Non ci vuole molto a capire che Adam McKay abbia approcciato Don’t look up volendo fare la – temutissima – “commedia impegnata”. McKay vuole far ridere con questo film: ogni scena è girata ai limiti del macchiettismo e della parodia, tutto eccessivo, la locura al suo massimo. Solo che poi gli viene paura che, se ride, il pubblico potrebbe finire a ridere di lui e quindi, per non far perdere di vista il GRANDE TEMA™, inforca gli occhiali e sottolinea ogni metafora, ogni rimando, con un evidenziatore talmente grosso da risultare abbagliante. Tutti gli aspetti del film, dalla recitazione al montaggio, sono impostati su un livello così eccessivamente didascalico da far pensare che nessuno ci credesse davvero.
A partire dai quattro attori principali (Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, sora Meryl Streep e Cate Blanchett) che, pur mettendo insieme 39 (trentanove!!) candidature e sette vittorie agli Oscar – a cui si aggiungono altre quattro candidature ad attori secondari (Mark Rylance, che lo vinse per Il ponte delle spie, Jonah Hill e Timothée Chalamet) – non riescono ad andare oltre la parodia di se stessi. In questo senso, menzione d’onore per la Lawrence nel ruolo della go-girl che dice le parolacce e risponde male ai poteri forti, e per Chalamet che, chiamato a fare “il giovane” con lo skateboard, i capelli lunghi e che usa espressioni come “ganzo” facendo le corna con le dita, pare uscito da uno sketch di Fiorello a Sanremo.
Direte voi “ma anche i film che tu difendi sono sopra le righe”, e avreste certamente ragione. Ma quelli sono film fatti all’insegna del ridere e ruttare mentre esplodono le cose, che mai – ripeto, mai – hanno accampato pretese di serietà. Questo invece è un film pensato con una certa arroganza intellettualoide (sì, lo so che sembro Rampini, me ne rendo conto dio mio) che vorrebbe sembrare più di quanto non sia e quindi infarcisce ogni scena di retorica, manicheismo e finta sagacia per cercare di darsi un tono. È la pizza di Carlo Cracco.
Prendiamo, ad esempio, il montaggio. Hank Corwin, dopo aver lavorato con Oliver Stone e Terrence Malick, decide di prendere la via di Luc Besson e per far capire quanto effettivamente sia bella la nostra amata Terra, ha messo, totalmente a caso, immagini della National Geographic di mamma e figlio ippopotamo che giocano o lussureggianti paesaggi tropicali (proprio come in Lucy che però, ricordiamolo sempre, era un film in cui Dio si rivelava agli uomini sotto forma di pen-drive), salvo usare questi stacchi per camuffare transizioni che in un film “serio” avrebbero impegnato buona parte dell’arco narrativo dei protagonisti. DiCaprio passa da nervosetto professore un po’ sfigato a scafato influencer televisivo e poi DI NUOVO a nervosetto professore un po’ meno sfigato nel giro di tre secondi netti senza uno straccio di spiegazione. Tutto è lasciato all’interpretazione dello spettatore in Don’t look up, tutto accade di sfuggita ma sempre con massima intensità, e poi si passa al siparietto successivo in cui Meryl Streep imita Trump, Jennifer Lawrence imita se stessa e Leo DiCaprio non ho capito bene che dovrebbe fare.
E a me questo andrebbe benissimo (vivaddio, ho sempre sguazzato nei buchi di sceneggiatura) se solo questi difetti non venissero mascherati da scelte che, invece, servono solo a distrarre l’attenzione dello spettatore e a fargli credere di star vedendo un film autoriale. Ecco, Don’t look up è kitsch quanto un film di Aronofsky senza averne l’animo punk, è piatto come Armageddon di Michael Bay senza però la coolness.
Io non so come il pubblico a cui è rivolto questo film approcci in genere il disaster-movie. Mi chiedo però quanti di quelli che si stanno spellando le mani per Don’t look up abbiano visto, non so, Shin Godzilla per esempio?
Ci sarebbe da aprire una lunga discussione su come la distribuzione “fast-food” data dalle piattaforme di streaming abbia radicalmente cambiato l’approccio verso i film e soprattutto come la capacità interpretativa del pubblico sia mutata. Magari – felice di essere smentito – esiste una (larga) fetta di pubblico per cui Godzilla è davvero un film su una lucertola gigante che sfascia Tokyo e che sentirebbe insultata la propria intelligenza a guardarlo mentre è ben felice di cogliere i mille rimandi alla pandemia o al cambiamento climatico di cui Don’t look up è pieno.
Ma, siamo onesti, la profondità di Don’t look up è tutta nella testa dello spettatore convinto, dato il cast, dato il regista, dato anche il tema così palese, di star vedendo un prodotto originale quando invece sono 70 anni che il disaster-movie fa le stesse cose. Non è un film né migliore né peggiore di altri. Solo molto più pretenzioso e antipatico.
Ma forse è un problema mio e se avessi avuto 15 anni in meno, probabilmente, l’avrei amato.
Trionferà agli Oscar.