Modern Love | Altri dieci dischi da non perdere quest’anno
AA. VV. – (DANZƏ) [Le Major]
Ci sono venticinque artisti, produttori e videomaker da tutta Italia dietro al progetto indipendente (DANZƏ), e hanno tra i 14 e i 22 anni. L’età è un punto nodale, perché questa raccolta assemblata dal trio Le Major – “un tag su Instagram per racchiudere le nostre release”, dicono loro – racconta, meglio di qualunque altra cosa io abbia ascoltato, letto o visto, il significato dell’essere adolescenti nell’ultimo paio d’anni, un mondo in cui fuori dai feed e dagli schermi c’erano quasi solo porte chiuse.
SoundCloud hyperpop coloratissimo e full caps lock che esplode coriandoli elettronici in ogni direzione, (DANZƏ) è viscerale e immediata, stupida e raffinata. E se vi fa orrore, meglio così: la musica dei figli è tanto più significativa quanto più appare incomprensibile ai genitori.
AA. VV – MODERN LOVE [BBE Music]
Difficile immaginare che un tributo a David Bowie possa davvero rifletterne la grandezza, eppure questo Modern Love lascia spesso a bocca aperta. Seguito ideale delle contorsioni jazz di Blackstar, la selezione pesca classici e gemme nascoste del catalogo di Jones focalizzandone il lato più soulful.
Arrangiamenti fantasiosi e tensione emotiva palpabile: nella traduzione per sola orchestra di Life On Mars (Miguel Atwood-Ferguson) quanto nelle rilassatezze funk di Right (Khruangbin); nel sogno subacqueo di Sound And Vision (Helado Negro) quanto nel moderno r&b imbastito per Soul Love (Jeff Parker); nella sospensione spaziotemporale di Move On (L’Rain) quanto nei riverberi trip-hop di Space Oddity (We Are KING), fino all’hard bop di Heroes (Matthew Tavares). Un lavoro collettivo che di Bowie abbraccia il senso profondo: l’eccitazione di fronte al mare del possibile.
BLAK SAAGAN – SE CI FOSSE LA LUCE SAREBBE BELLISSIMO [Maple Death Records]
Che siate a conoscenza o meno dei dettagli di cinquantaquattro giorni che hanno cambiato irreversibilmente il corso della storia del nostro Paese, è certo che ascoltando questo monumentale Se Ci Fosse La Luce Sarebbe Bellissimo avrete la sensazione di trovarvi lì, tra Via Fani e Via Caetani, testimoni oculari degli eventi compresi fra il rapimento di Aldo Moro e il ritrovamento del suo cadavere, il 16 maggio 1978.
Library music di strepitosa tensione evocativa, l’ora e un quarto del nuovo lavoro del veneziano Samuele Gottardello – a.k.a. Blak Saagan – gioca con le colonne sonore italiane d’epoca, la synthwave e stilemi Goblin e John Carpenter per illuminare, una dopo l’altra, le stanze di un edificio che in molti casi restano ancora al buio dopo più di quarant’anni.
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MARC RIBOT’S CERAMIC DOG – HOPE [yellowbird records]
Caotico, incendiario, vitale. Aggettivi adatti a qualificare il favoloso YRU Still Here?, statement anti-Trump dei Ceramic Dog di Marc Ribot, e che ben si applicano pure al seguito Hope, del tutto diverso, però, da quell’invito punk-jazz allo scontro di piazza. Registrato a partire dal maggio 2020 appena dopo il primo lockdown, Hope sembra, a un approccio distratto, un divertissement senza un collante che ne tenga assieme i frammenti d’osso.
Solo dopo alcuni ascolti la visione di Ribot e sodali – Ches Smith, Shahzad Ismaily – dispiega tutta la propria mercuriale voracità, tra ballad neropece e dilatazioni impro, acidissimi strattoni funk e archetipi rock. Essenziale in tutte le possibili accezioni del termine, Hope è una capsula del tempo che racchiude in sé l’assurdità di un presente impossibile.
DARKSIDE – SPIRAL [Matador Records]
Non c’è modo di sfuggire alla flessuosità umida e sinuosa di Narrow Road, traccia d’apertura di Spiral che segna il ritorno dei DARKSIDE a otto anni dall’esordio Psychic. Un progetto che sarebbe ingiusto bollare come semplice svago tra amici, questo, dato il valore del materiale proposto dal produttore/compositore cileno-americano Nicolas Jaar – addirittura due uscite per lui nel 2020, Cenizas e Telas, a dieci anni di distanza dal capolavoro Space Is Only Noise – e dal polistrumentista Dave Harrington.
Millimetrico, il gioco d’incastri tra l’elettronica downtempo e il falsetto austero del primo e le chitarre del secondo dà alla luce un singolare ibrido che porta blues e psichedelia su un dancefloor al rallentatore. Un miraggio di stupefacente concretezza, di cui la ricercatissima produzione esalta colore, calore e umori.
HTRK – RHINESTONES [N & J Blueberries]
Raramente le parole di una canzone rimangono evocative, una volta decontestualizzate: provate a togliere a “hair of gold and lips like cherry” l’incanto di Sad Waters, e nemmeno l’inchiostro gotico della penna di Nick Cave potrà redimere quel verso da una certa faciloneria; ma lì, con l’esatta intonazione, il ricordo di un corpo si fa carne.
Precisamente quel che succede in Rhinestones, sesto album degli australiani HTRK, dream-folk scheletrico di scuola Mazzy Star / Julee Cruise in cui trovano posto quasi solo la chitarra sospesa di Nigel Yang e la voce sonnambula di Jonnine Standish e che trasforma in magia un immaginario intriso di romanticismo nero altrimenti trito. Intanto, l’aria intorno è più nebbia che altro.
MOOR MOTHER – BLACK ENCYCLOPEDIA OF THE AIR [Anti]
Come se ogni volta dovesse dar fuoco a un’immagine di sé vecchia solo di qualche mese per proporne poi una radicalmente nuova ed evitare di trasformarsi in un prevedibile feticcio, Camae Ayewa torna con Black Encyclopedia Of The Air e sposta l’asse del proprio output sonico a nome Moor Mother dalla violenta miscela di drone, noise, blues e spoken word di Analog Fluids Of Sonic Black Holes a un hip-hop atmosferico e zeppo di glitch, errore di sistema che annega i numerosi feat – Pink Siifu, Nappy Nina ed Elucid su tutti – in una nebbia allucinata quanto la deriva su fiume di Apocalypse Now. Afrofuturista e aliena in modi che trovano un paragone nel solo Sun Ra, Moor Mother è forse la più importante artista contemporanea.
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R.Y.F. – EVERYTHING BURNS [Bronson Recordings]
Nome d’arte di derivazione letteraria – quei “restless yellow flowers” dell’acronimo R.Y.F. arrivano da Bulgakov e dal suo Il Maestro e Margherita -, Francesca Morello è di nuovo fra noi due anni dopo il riuscitissimo Shameful Tomboy per sparigliare le carte con soddisfazione evidente: laddove c’erano quasi solo voce e chitarra elettrica, in Everything Burns s’incontrano invece ossessioni post-punk e una techno primordiale e rugginosa.
Un impianto sonoro tutto codificato fra Ottanta e Novanta – azzardo: ascisse Pretty Hate Machine, ordinate Dry -, personalizzato però da una vocalità e un’urgenza comunicativa brucianti, che strapazzano a dovere la noia della norma e le questioni di genere in un tempo che troppo spesso le riduce ad avvilenti product placement.
SPACE AFRIKA – HONEST LABOUR [Dais Records]
Un album nato dall’isolamento e dalla distanza, Honest Labour, con un titolo preso in prestito dall’affettuoso soprannome di un antenato di Joshua Inyang: lui e un altro Joshua – Reid, berlinese adottivo – lo hanno scritto scambiandosi file e idee durante i periodi peggiori della pandemia. Diciannove tracce per quarantacinque minuti nero fuliggine, Space Afrika è un mindset che deve tanto ai nineties di Bristol quanto al Burial meno club-oriented e più frusciante, una sequenza di trasmissioni captate da una stazione radio pirata di qualche città sommersa.
Poche voci limpide emergono di tanto in tanto a lasciare briciole di pane per orientare chi verrà, ma la speranza esiste anche in questa oscurità fisheriana e ha le sembianze degli archi lacrimevoli della title-track. Una pioggia quieta, che lava via la notte.
SPELLLING – THE TURNING WHEEL [Sacred Bones Records]
The Turning Wheel, terzo lavoro di Spellling, è un brivido inconsueto e per questo prezioso. Accompagnata da un’orchestra di trentuno elementi, Chrystia Cabral non teme di perturbare splendide canzoni tenendosi teatralmente in equilibrio tra gli opposti: una voce che suona come una Neneh Cherry però incarnata nel timbro non ancora adulto di qualche ignota starlet; uno scintillante pop barocco che si incupisce in derive darkwave, luci al neon che non stonerebbero in Drive.
Ecco, il cinema: la prima volta che l’ho ascoltato, ho pensato che The Turning Wheel sarebbe stato una sonorizzazione perfetta per Us di Jordan Peele. Lì, in coda, c’è il sole accecante di Minnie Riperton a cozzare ironicamente con l’orrore cui siamo appena stati esposti – l’America che preferisce evitare il proprio riflesso allo specchio. La musica di Spellling, miracolosamente, tiene insieme entrambi senza sforzo.
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