Di sogni e illustrazioni raccontati da Elisa Macellari
Dietro alle storie, soprattutto quelle belle, si nasconde sempre una voce che ha saputo portare nella realtà personaggi più o meno inventati. Dopo aver letto il suo primo graphic novel, abbiamo intervistato Elisa Macellari, illustratrice italo – tailandese che ha portato nelle tavole di Papaya Salad (Bao Publishing) colori accesi e sapori orientali. Con lei abbiamo parlato del mondo dell’illustrazione ma anche del desiderio di viaggiare per ritrovare le proprie origini, scoprire nuove mete e trasformare la lontananza in un ingrediente speciale per il nostro cuore.
Una storia è ancora più magica quando ispirata alla realtà, quando le sue radici sono profonde e toccano anime vicine a noi. Le tavole di Papaya Salad sono nate così, vero? Ci sono delle ragioni particolari che ti hanno spinto a farlo?
Si, le tavole di Papaya Salad sono nate così. Mi ha spinto la necessità di non perdere il contatto con le mie radici, con una Terra che mi appartiene solo a metà, che ancora non ho capito nella sua interezza. La Thailandia è mia madre, i miei tratti somatici, alcune posture che naturalmente assumo, la casa che ho visto per la prima volta a quattro anni. Oltre a questo, che potrebbe essere solo auto-referenziale, mi sembrava una bella storia d’amore, interculturalità, viaggio e in parte anche di politica.
In Papaya Salad si parla tanto di famiglia ma si intravede anche un tema piuttosto complicato come la lontananza, il dover stare a chilometri di distanza dalle persone che si amano e dai propri cari pur di rincorrere i propri sogni. È un aspetto in cui ti ritrovi? Ti è capitato?
Io non vivo male la lontananza dai familiari, anzi a volte la trovo salutare. Credo di avere una specie di indipendenza emotiva. È anche vero che la mia è una scelta e non una condizione imposta, a cui invece molte persone sono obbligate. Sono nata e cresciuta a Perugia e nella provincia non mi sono mai sentita a mio agio, non vedevo prospettive. Quindi quando mi sono trasferita prima a Torino e poi a Milano sono stata felice del cambiamento. Quando si torna, la famiglia c’è sempre. La scelta di mia madre è stata molto più radicale della mia. A ventidue anni è arrivata in Italia da Bangkok e quando ha scelto di rimanere aveva davanti a sé molti più chilometri da percorrere per tornare a casa. Ma anche lei non soffre di nostalgia. Credo che in parte l’atteggiamento di Sompong, il protagonista del libro, sia di famiglia. L’accettazione della condizione presente guida le nostre vite.
A noi di SALT piace leggere ma anche viaggiare (e ti dirò, pure mangiare!). Papaya Salad è un mix di tutto questo, con una meta lontana e ricca di suggestioni: la Thailandia. Cosa ci vuoi raccontare di questo Paese?
Che è un Paese colorato, vibrante e creativo. Che è in rapida crescita, con tutte le contraddizioni del caso. Che l’animismo si intreccia con il buddhismo e questo genera delle forme di folklore per me bellissime. Che i sapori sono rotondi e non ti lasciano mai indifferente. Che tutto deperisce velocemente per via del clima tropicale e questo ha portato le persone a rattoppare e accroccare gli oggetti in modo sorprendente.
Qual è il confine fra scrivere e illustrare una storia? Come approcci questo modo di narrare?
Io non ho percepito il confine. Il graphic novel coniuga entrambi gli aspetti, a volte vengono prima le parole, altre volte nascono prima le immagini a cui poi si associano i dialoghi. È stata una partita tra la scrittura e il disegno. Se dovessi trovare un vincitore comunque sarebbe l’illustrazione. Spesso mi risulta più facile tradurre gli eventi in immagini grafiche, piuttosto che descriverli con tante parole.
Come scegli i colori e le parole da regalare ai personaggi a cui dai letteralmente forma?
I colori li ho scelti negli anni di lavoro da illustratrice. Nel tempo si è delineata una palette che ricorre spesso nelle mie immagini. Di solito parto dal verde acqua, una delle mie tonalità preferite, e di conseguenza si abbinano gli altri colori per complementarità. Con le parole sono molto più parca. Per me ne bastano poche ma significative.
Hai sempre voluto fare quello che fai?
No. Mi è stato chiaro dopo i trent’anni. Ho sempre avuto l’inclinazione per il disegno ma non sapevo bene in che modo potesse diventare professione. Ero più indirizzata verso l’arte contemporanea, invece con il tempo ho scoperto che quello che mi interessava era il lato narrativo ed evocativo dell’immagine.
Cosa consiglieresti a chi vorrebbe iniziare un percorso nel mondo dell’illustrazione?
Di farlo a tempo pieno. All’inizio costa sacrifici, ma bisogna costruirsi il proprio universo visivo, trovare gli elementi del proprio linguaggio, scegliere le soluzioni formali. Se si accettano compromessi con altri lavori non si è abbastanza focalizzati. Almeno questo è successo a me. Ho cercato inizialmente un lavoro part-time che poi è diventato full-time e non ho avuto più tempo per ricercare. Poi ci vuole un po’ di fortuna e tanta dedizione.
Ultima domanda ma non meno importante: SALT nasce come “contenitore” e “declinazione” di quanto per noi rappresenti il sale della vita attraverso la musica, il cinema, i libri e i viaggi. A tutti quelli che intervistiamo, quindi, e anche a te oggi, chiediamo: cos’è per te il Sale della Vita?
Per me è avere una persona amata con cui condividere le avventure, viaggiare con curiosità, mangiare bene e vedere tante mostre.