Di cosa parliamo quando parliamo di recitazione
Giorni fa, in occasione dell’uscita al cinema di The Revenant, l’eminente quotidiano americano The Washington Post ha realizzato un articolo che descriveva 8 ragioni per cui Leonardo DiCaprio dovrebbe vincere l’Oscar per la sua interpretazione nel film di Inarritu. L’articolo è stato diffusamente ripreso e tradotto anche da quotidiani nostrani e, fra le varie ragioni che conferirebbero a Leo l’ambita statuetta, vi sono: essersi fatto crescere la barba per un anno e mezzo, senza tagliarla mai; essersi dovuto alzare tutti i giorni prima dell’alba (per il trucco) ed aver dovuto camminare per ora per girare pochi minuti di scena con la giusta luce; aver rischiato l’ipotermia viste le basse temperature e la continua immersione in fiumi, torrenti e animali; aver mangiato fegato di bisonte crudo (americani: nelle nostre campagne della bassa ho visto fare ben di peggio).
La risonanza che ha avuto questo articolo e la dura realtà della possibilità fortissima che il nostro Leo questa volta venga premiato davvero, ci portano a due domande importanti: di cosa parliamo quando parliamo di recitazione?
E a seguire, conseguentemente: su cosa si basano i premi Oscar?
La recitazione cinematografica si base eminentemente (diciamo per un buon 95%) sul metodo Stanislavskij (che peraltro era stato anticipato da Shakespeare nell’Amleto, nel discorso agli attori), cioè quello realistico – in netta opposizione alla recitazione straniante di Brecht. Il metodo, nato per il teatro, si prefigge di porre uno “specchio alla natura”, cioè di recitare come se le vicende stessero succedendo per davvero. Nel teatro e nel cinema dei teatri di posa, questo significava realismo completo in un ambiente finto. L’attore, poi, può dare sfumature proprie al personaggio, rendendo così ogni interpretazione diversa. Non si verifica, dunque, l’annullamento dell’attore nel personaggio, ma la coabitazione o l’occupazione del personaggio da parte dell’attore.
Stando a questa definizione credo condivisibile, Leonardo DiCaprio non recita MAI durante le oltre due ore di The Revenant. E non è colpa sua. Analizziamo nel dettaglio ciò che il film gli chiede di fare.
La differenza fra realtà e recitazione è sempre ben chiara, salvo sfondamenti della quarta parete (Woody Allen mi leggi?). Se poniamo un uomo nudo in un fiume in Alaska, l’uomo avrà freddo. Non serve recitare il freddo, il freddo c’è, è reale. Non devi essere un attore per mostrare il freddo in Alaska. Un attore, al massimo, potrà recitare il freddo, messo su una spiaggia caraibica. Non bisogna studiare all’accademia di teatro per provare il caldo ai Caraibi. C’è quindi una differenza sostanziale fra esperire, provare e mostrare, recitare. La barba lunga di un anno non ha nulla a che fare con la recitazione, ma al massimo con l’esperienza. Alla stessa maniera la “capacità” di rischiare l’assideramento immersi in un liquido freddo ai climi subpolari. Non si recita il freddo in quelle condizioni, lo si prova. Mettere un attore nelle condizioni che dovrebbe recitare, senza dubbio aumenta il realismo dell’azione, ma non permette all’attore di fare il suo mestiere. Inarritu puntava al realismo (della luce, dei paesaggi), ma a costo di sacrificare tante altre cose. Leo altro non è che un doppelgänger di Glass, costretto a rifare tutto ciò che Glass ha fatto e subito (vero o finto che sia). E un doppelgänger, per definizione, non recita.
Ciò che DiCaprio avrebbe potuto fare, è la sfumatura del personaggio, interpretando attraverso la lente del proprio sé, il vissuto del personaggio e la sua evoluzione psicologica. Questo gli è stato impedito dalla sceneggiatura (?), altra eminenza che Inarritu ha sacrificato all’altare del realismo. Glass non ha alcun tipo di evoluzione. È un blocco inamovibile di granito, animato da un solo sentimento che non muta né viene scalfito da alcunché. Neppure nelle scene conclusive, dove quasi sembra che, esaurito il compito assegnatogli, Glass si lasci andare alla sicura fine, senza mutare di un passo il suo percorso. Non è stata neppure tentata alcuna dialettica fra istinti (animali) e pulsioni (umane), come le distinse Fromm. Ogni spinta è istinto, anche se visto dagli occhi umani. E ogni istinto si riduce ad uno solo, senza alcuna sfaccettatura.
Al contrario dei grugniti e degli sputazzi di Leo, chi davvero recita nel film è Tom Hardy, che regredisce ad animale (di istinti) pur rimanendo strutturalmente umano (e al caldo). Cioè ci mostra qualcosa che non c’è, sicuramente non in superficie. A lui andrebbe un premio, se fosse proprio necessario premiare gli attori di The Revenant. Oppure no? Le ragioni dietro all’articolo del Washington Post ci portano direttamente alla nostra seconda domanda: cosa viene premiato dagli Academy Awards?
La complessità dei premi Oscar non si è mai fermata all’aspetto tecnico, nel bene e nel male. Gli Academy non premiano la tecnica, registica o recitativa che sia. O quanto meno non solo. Da sempre, invece, viene premiato un aspetto più globale dell’arte cinematografica, che possa abbracciare la politica, l’etica, l’aspetto ludico, il pubblico… e sì, alla fine anche la tecnica. Potremmo dire che viene premiata la performance, intesa come insieme più complesso delle singole parti, che può anzi sacrificare qualcuna di queste parti, a favore di un ideale più “alto” (discutibile). Soprattutto per quanto riguarda la componente tecnica. Di esempi se ne trovano a bizzeffe, nel bene e nel male. Si pensi ai premi dati a 12 anni schiavo, che qualche edizione fa si è aggiudicato il premio come Miglior Film (caruccio, eh, ma non esageriamo) e, ancor più clamorosamente, il premio come Miglior Attrice Non Protagonista a Lupita Nyong’o, che si limitava ad urlare frustata per tutto il film. Al contrario, è noto a tutti come Kubrick non ricevette mai un premio Oscar – che avrebbe premiato la tecnica- perché è sempre stato un outsider antipatico ed inviso a tutti.
Diciamo che i premi Oscar seguono spesso alcuni filoni: l’impegno politico/sociale per quanto riguarda i film (ma di questo parleremo in un altro momento) e le trasformazioni peggiorative, per gli attori. Attori che dimagriscono di quaranta chilogrammi per interpretare un malato di AIDS, che si imbruttiscono per interpretare una serial killer o una scrittrice notoriamente brutta (e suicida). Eppure questi “contenitori” non possono e non devono restare vuoti, dato che sono rari i casi in cui il significante è davvero in grado di bastare completamente privo di significato.
Possiamo dunque affermare che Leonardo DiCaprio è meritevole di una buona performance, ma non di una buona prova recitativa. E tutto ciò che viene addotto dal Washington Post ne è la riprova: i motivi per cui è “leggendario”, sono proprio i motivi che lo rendono un non-attore (non voglio neppure parlare del fatto che venga addotto come motivo il doversi alzare prima dell’alba, mi sembrerebbe un insulto nei confronti di chi lo fa tutti i giorni per lavoro). Per quanto detto, dunque, ritengo molto probabile che il nostro Leo vinca la Statuetta, quest’anno. Il problema – e sì, è un problema – è che non è colpa sua. Né tantomeno merito.
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