Di contrasti e scoperte: il Nicaragua
Cammino per il mercato più grande dell’America Centrale, l’Oriental di Managua, in Nicaragua. Non so dove appoggiare i piedi. A terra c’è di tutto. Non posso ossessivamente guardare il pavimento: i miei sensi devono stare vigili, la gente si muove rapida ed io devo essere altrettanto veloce. E’ un luogo pericoloso e dobbiamo fare in fretta, uscire da qui prima delle 15.00. Da quando mi hanno rubato anche il computer nuovo, non riesco a guardare gli sconosciuti e a fidarmi come facevo prima.
Sono le 12.30 di un giorno qualsiasi in Nicaragua ed io sono in piedi da ore. Il sole mi batte addosso, crudele, il caldo è insopportabile in questo mercato. Altre due persone lavorano con me. Si muovono svelte negli stretti corridoi di questo labirinto di più di 80.000 persone. C’è chi parla, chi grida, chi vende, chi paga, chi litiga, chi si picchia, chi pulisce le patate, chi i fagioli, sento odore di cavolfiore. Dobbiamo superare il carnicero, lo stretto corridoio della carne, per poter raggiungere i commercianti di fagioli (uno dei nostri oggetti di studio). Non si vede bene il cielo: è all’aperto, ma in realtà sembra buio.
Rispetto al mio primissimo articolo su SALT, ho tristemente conosciuto alcuni lati poco felici della vita in Centroamerica – complici anche le mie mansioni qui. Sono ripetutamente venuta a contatto con la sensazione di essere completamente sola, con il baratro che ti lasciano le non-risposte degli amici dall’altra parte del mondo, con la stanchezza di chi non riesce più a sentirsi costantemente in moto. Eppure sono sempre qui. E tutto perchè continuo a scorgere la meravigliosa sensazione di assistere al mio stesso cambiamento. Mi sento come in movimento, provo la sensazione di diventare migliore. Sto lentamente prendendo coscienza di cosa sia l’energia delle persone, dei luoghi e perfino dei singoli istanti. I collettivi e le associazioni, ad esempio, mi hanno completamente travolto. Le nuove generazioni di questo Paese sono un ribelle cuore pulsante che dimostra che il Centroamerica non è soltanto violenza, droghe e dittature. Ho avuto la fortuna di conoscere gruppi di artisti, femministe, scrittori, giornalisti, ma anche agricoltori e artigiani. Si riuniscono e organizzano progetti, serate e riunioni per condividere e creare. Condividere. E arricchirsi dell’altro. Possono parlare per ore, perfino discutere tra di loro semplicemente su una piccola fiamma chiamata idea. Combinano le competenze di ognuno in un puzzle colorato e ne tirano fuori qualcosa. E’ così che mi sono tristemente scoperta povera di argomenti, che ho cominciato a capire quanto abbiamo perso nel Vecchio Continente, quanto ci troviamo troppo spesso a parlare di “chi ha fatto cosa” senza mai sfiorare la sostanza.
Una volta all’entrata del carnicero, mi sembra di avere di fronte il significato della stessa essenza umana: predatori in cima alla catena alimentare, crudeli fino all’inimmaginabile, resilienti e comunque animati da qualcosa che ci permette di adattarci e di vincere le difficoltà. Mi faccio coraggio: l’odore della carne mi assale le narici, i commercianti scacciano le mosche areando i pezzi di carne adagiati sulle tavole di legno. Il passaggio è stretto. L’Oriental è un intrico di vie affascinanti per quanto caotiche, un luogo quasi immaginario per quanto particolare. Ho già lavorato in mercati del mondo (a Lagos, ad esempio), ma nessuno è come questo. Mi sento piccola in balia di un tempo dilatato, fuori da qualunque logica che abbia mai potuto realmente conoscere. Quante tonalità di rosso riesco a distinguere? Non ho mai pensato a questo. Percorro il tratto che mi separa dall’uscita in uno stato di tensione. Mi sento insicura, gli uomini mi gridano cose volgari ed io continuo a sentire un caldo inumano. Compro una borsa piena d’acqua da un tizio, la pago 5 pesos, bevo tre sorsate e crollo sulle mie stesse ginocchia esausta.
Il Nicaragua è esattamente questo per me: una sfida costante, un luogo del quale non imparerò mai abbastanza. La diffidenza e l’attitudine talvolta menzioniera della gente comune lo rendono a tratti una piaga per la mia anima; la sua effervescenza e la sua brulicante diversità culturale mi mantengono, invece sicura della scelta che ho fatto cinque mesi fa, quando ho accettato questo incarico qui. Imparo, sempre, da tutti, nessuno escluso. E’ qualcosa che non ricordavo, che fa bene alla mente e all’anima. Mi lascio cullare dalle bellezze che incontro nei miei weekend di viaggi, dai sapori di frutti sconosciuti, dal suono delle parole di chi lavora la terra ogni santo giorno. E contemporaneamente affronto i miei demoni, guardo in faccia la povertà di chi grida ogni giorno in questi mercati così caotici, scopro cose più o meno belle di me stessa e degli altri. So che se riuscirò – alla fine dell’anno – a portare a casa tutto questo, avrò davvero fatto qualcosa di buono.
Francesca Larosa