A Bigger Splash di David Hockney
California dreaming e David Hockney
Titolo: A Bigger Splash
Artista: David Hockney
TAR: acrilico su tela; 242,5 x 243,9 cm
Anno: 1967
Collezione: Tate, London
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Se a metà luglio sei ancora incastrato in una qualche città che non preveda pozze d’acqua balneabili nelle zone limitrofe, a stare nervosamente appresso a scadenze e orari combattendo da un lato con l’aria condizionata troppo forte dall’altro con delle zanzare grosse che manco ai tropici, l’estate è quella cosa che te ne accorgi così: per i cali di potassio&magnesio e le bacheche facebook invase di gente lucida e sorridente su sfondi a dominante cromatica su scale del blu. L’unica quindi è accendere il ventilatore e attaccare la giusta colonna sonora per crogiolarsi in questa summertime sadness, in attesa che venga anche il nostro momento di chiudere il computer, lanciare i fogli all’aria, strapparsi le camicie come fanno i supereroi al cambio d’abito e infilarsi il costume (da bagno, ovviamente). E mentre si sogna a occhi aperti, riempirli con immagini dell’oggetto desiderato. Sì perché come si è già sottolineato c’è caldo e voglia di spritz, non di vedere i selfie al mare dei nostri conoscenti, molto meglio cullare il nostro immaginario con, per dirne una, A Bigger Splash di David Hockey (ognuno evade come può).
Se il titolo, enigmatico se non si conosce la genesi dell’opera, fa subito suonare qualche campanello è perché preso in prestito due anni fa dal regista Luca Guadagnino per il suo film con protagonisti Tilda Swinton e Ralph Fiennes, mica robetta, ma che di base condivide con l’opera di Hockney solo la presenza di una piscina – o forse pensandoci anche una certa atmosfera. La tela ad acrilico del 1967 è una delle più famose dell’artista inglese (nato a Bradford, Yorkshire, nel 1937), probabilmente per l’appeal delle forme semplici, le tinte pastello, la chiarezza della composizione. Il quadro è il più grande (bigger, appunto) di una serie di altri splash, figli della fascinazione dell’ancora giovane Hockney per la California, dove oggi vive e lavora, durante il suo primo viaggio a Los Angeles a metà degli anni Sessanta. Possiamo immaginare l’impatto che può aver avuto il passaggio dalle campagne nord-inglesi al sole californiano e Hockney ce lo racconta tutto col dono della sintesi che lo contraddistingue, poche linee e dei blocchi di colori densi. Ci sono diverse piscine nelle opere di quegli anni dell’artista, come a rimarcare lo stupore nel constatare la normalità della loro presenza nelle case californiane. Un’edulcorazione, una celebrazione addirittura, della ricchezza dello stile di vita spacciato da LA come modello idilliaco a metà secolo scorso (che arriva fino a oggi), è stato detto. Discorso politicizzante a parte (“Non sono sicuro che l’arte sia sempre politica. Per me no.” ha dichiarato Hockney in un’intervista), quello che è evidente è la capacità dell’artista di cogliere e inquadrare un mood, che un po’ è quello del “California Dreaming” cantato dai The Mamas & The Papas proprio negli stessi anni, un po’ non possiamo fare a meno di immaginarci dei ricchi biondoni surfisti col SUV (quelli della mia generazione sanno che ogni riferimento alla serie tv The O.C. non è puramente casuale.) Non per niente A Bigger Splash è diventato un’icona pop, con la sua allure a metà tra il naif e la rivista patinata, il suo formato quasi quadrato con larghi margini che è quello delle polaroid, tanto amate da Andy Warhol (ne scattò alcune proprio allo stesso Hockney), quello guarda caso del primo Instagram (sì, quando non avevi scelta, la foto dovevi proprio tagliarla).
Ma non è solo la serie di riferimenti che si innescano a cascata e la nostra voglia di estate a tenerci incollati a esplorare con lo sguardo la superficie del grande splash. È la cristallizzazione di un momento, fermato con una limpidità estetica che è tutta forme, colore e superficie. È quella luce piena, vivida, che satura tutto, quella delle ore più calde di agosto, che noi del Bel Paese che di sole ce ne intendiamo conosciamo bene, quella che i movimenti si fanno più lenti e tutto più silenzioso. È languido. Come quando ti coglie quella noia che sfuma in una leggera malinconia, ma te la godi, mentre fai ciondolare una mano giù dall’amaca. (Ci importa davvero sapere che è la California? Forse anche lì si sentono i grilli, come qui.) Placidità che il sapiente Hockney interrompe con quello schizzo d’acqua facendoci intuire, ma nulla più, la presenza umana, in quel paesaggio quasi astratto, scandendo un tempo laddove tutto sembrava statico, sospeso. Eppure è in qualche modo silenziato anche quel tuffo, ovattato, quasi non volesse disturbare. “When you photograph a splash, you’re freezing a moment and it becomes something else. I realise that a splash could never be seen this way in real life, it happens too quickly. And I was amused by this, so I painted it in a very, very slow way.” si legge nella brochure di accompagnamento dell’ultima retrospettiva dedicatagli alla Tate di Londra (ora transitata al Centre Pompidou). E me lo immagino David Hockney con i suoi occhietti vispi, lo sguardo come quello di un bambino che tutt’ora all’età di ottant’anni è rimasto immutato, divertirsi, pennellata dopo pennellata, a cogliere l’attimo.
“Time is elastic, and I play with that idea. When you paint is now, I like to live in the now, that’s all it is now, isn’t it?” Ma meglio che lo sentiate dire da lui, col suo accento di Bradford.