Dal Vangelo secondo il Calcio
Ve lo ricordate quel “TUTTO VERO” scritto a caratteri cubitali sulla prima pagina della Gazzetta dopo la vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006? Ne conservo ancora una copia. Copia che, naturalmente, non avevo comprato io, avendo passato (da brava 16enne) la notte del mondiale a fare il bagno nelle fontane della città, a girare in motorino con la maglietta degli azzurri e il tricolore dipinto sul viso, e ad esultare come se, letteralmente, avessimo appena conquistato il mondo.
E forse un po’ ci sembrava di averlo fatto davvero.
Che ve lo dico a fare, «Pooo popopopo pooo» ed è subito nazionale.
“Il cielo è azzurro sopra Berlino” dissero i cronisti appena Grosso segnò l’ultimo rigore. Ed eravamo 65 milioni di persone sul tetto del mondo: un miracolo che quasi solo uno sport può compiere. E se queste sono le premesse, diventa curioso e al contempo drammatico come si sia arrivati oggi, nel 2014, a far detestare a molti Brasiliani una delle cose che (come noi Italiani) più adorano in assoluto: il calcio.
Ebbene sì, tutti sappiamo bene che c’è un altro Brasile che i grandi schermi non ci fanno vedere. Le manifestazioni anti-mondiali si sono tenute soprattutto lo scorso anno, quando oltre un milione di persone si è riversato per le strade del Paese, ma le proteste sono continuate anche nei mesi successivi, anche fino a pochi giorni fa. Il Brasile era pronto per accogliere i Mondiali?
Noi la risposta non la sapevamo, e così siamo andati a chiederlo direttamente ai Brasiliani. Vi riportiamo una testimonianza diretta, perché è bene che aldilà del sano entusiasmo calcistico, non ci si dimentichi che “in un Paese che ancora soffre per la mancanza di investimenti nell’educazione, nella salute ed è affetto da innumerevoli problemi sociali, destinare così tanto denaro nella preparazione dei Mondiali è, senza dubbio, una grande contraddizione”.
Eppure, come spesso accade, è proprio lo sport che permette di superare le polemiche, talvolta (incredibilmente) per farsi modello di condotta, metafora di vita. E ancora una volta, in Brasile o in Sud Africa, a Milano o a Brisbane, si rispolvera la bellezza immediata del calcio e la sua capacità, senza pari, di tradursi in occasioni di impagabile socialità.
Ken Loach, regista britannico (quello de Il vento che accarezza l’erba, per intenderci) provò a raccontare su pellicola cinematografica la vera essenza del calcio (e quindi dello sport in genere), quello che si vede nei cortili delle case, nel campetto di periferia, quello che coinvolge noi stessi, in prima persona. Ed è proprio in una periferia suburbana di Manchester che viene ambientata la commedia di Loach Il mio amico Eric: una storia di redenzione umana dove lo sport è solo una metafora di vita, dove la “squadra” viene prima di tutto, ricordandoci che non siamo numeri primi, ma facciamo parte di qualcosa di più grande.
Senza nulla togliere al tentativo (più che riuscito, per altro) di Loach, dobbiamo essere onesti: la più bella metafora di vita sul calcio l’ha scritta De Gregori ne La Leva Calcistica del ’68. Anche qui, ancora una volta, non ci sono maxischermi né campioni inarrivabili: c’è solo Nino, un ragazzino di 12 anni che sta andando a fare il provino per entrare in squadra “con le scarpette di gomma dura e il cuore pieno di paura.” Un invito a provarci ancora, a non preoccuparsi per un rigore sbagliato, perché nel calcio così come nella vita, un giocatore lo si valuta “dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.”
E se si parla di fantasia calcistica non si può non pensare a Mario Corso (il “piede sinistro di Dio”), centrocampista dell’Inter degli anni sessanta, passato alla storia per il suo imprevedibile quando brillante modo di giocare. Lo racconta in maniera accattivante il giornalista Edmondo Berselli, nel suo libro Il più mancino dei tiri.
Pare non esserci nulla tra queste pagine, eppure c’è praticamente tutto. Ci sono gli anni Sessanta, prima di tutto, e si vedono spuntare nomi come Togliatti, Andreotti, Nenni. L’abilità dell’autore sta nel tracciare lo spaccato di un’epoca, pur sempre focalizzandosi sul tema calcistico: siamo sul confine tra un saggio e la parodia di un saggio. Il libro si risolve in una sorta di lunghissima conversazione che non ha una tesi precisa ma descrive il modo in cui il calcio diventa, ancora una volta, incessantemente, metafora della vita.
E, chissà, forse un giorno scopriremo anche noi che per eludere i rigidi schemi sociali in cui siamo incasellati, ci servirà il più beffardo e imprevedibile dei goal: “il più mancino dei tiri”.