Da l’Habana a Vinales, la Cuba che non ti aspetti
Era un sera ventosa all’aeroporto, e prima ancora di infilare nervosamente la mano in tasca per estrarre una bionda, sono stato investito da una sensazione di beatitudine. Sei lì, nella città prediletta da Hemingway, accolto nell’isola caraibica, luogo tanto affascinante quanto tragicamente noto per episodi che, se andati diversamente, sarebbero davvero degenerati nel terzo conflitto mondiale.
L’attesa della tua casa, vale a dire del tuo compagno di viaggio, e cioè il solito e consunto zaino, lo schiamazzare dei taxisti che, lesti e meticolosi, cercano di accaparrarsi la miglior corsa e finalmente la pietrina, che , sollecitata dal tocco del dito che ci distingue dai primati, dà origine alla fiamma, segnano inequivocabilmente il mio arrivo, meno importante di quello avvenuto nella baia dei Porci, sia chiaro. Certamente quindi non finirò citato nei manuali di Storia ma è proprio grazie ai libri didattici la ragione del mio incontro con Cuba.
Gli auspici non erano eccessivamente fausti, né tanto meno infausti. Se il mio arrivo conteneva una premonizione, la premonizione era che io non conoscevo l’isola. Ed era ciò che mi muoveva. Ho tentato, conseguentemente, di scoprire quanto più mi era concesso nelle due settimane disponibili. E così come il dolce è la portata finale di una lauta cena, così l’Habana doveva essere l’ultimo episodio della mia avventura. Dopo una notte di ristoro nella capitale, con non poche difficoltà per trovare l’unico alloggio prenotato dalla penisola, a causa di una non troppo logica, e quindi facile, distribuzione delle calles (vie), mi diressi a Ovest, a Vinales.
Città dell’entroterra, celebre per le enormi quanto suggestive piantagioni di sigari e caffè, dove regnano incontraste le case particulares. Un’infinità. Moltitudini di persone che oltre ad ospitarti sotto il loro tetto, sono disposte anche a servirti, all’orario richiesto, colazioni e cene da nababbi, a prezzi ridicoli – con buona pace di Airbnb. Già, le colazioni.
Un variopinto susseguirsi di pietanze di colori accesi, di frutta fresca che il sol guardarla crea l’acquolina in bocca. E tanta nostalgia, ora. E’ la città per eccellenza delle escursioni, caballo o bicicleta i mezzi disponibili, che sono imprescindibili. Bentornati nel XVIII secolo, benvenuti a Cuba.
Dopo qualche giorno di permanenza, il corpo inizia a essere un semplice veicolo per l’occhio, un po’ come il sistema radar delle torri di controllo. L’occhio, infatti, individua tutti i movimenti, nota i colori sempre accesi delle case, le strade tortuose, la fitta vegetazione, le tipiche Chevrolet del ’56 che lanciano brani, talvolta allegri, talvolta malinconici. E poi, ancora, il colore della pelle, le divise dei bambini, la ruota, di un colore simile a putrefazione, del taxi colectivo che da Vinales traghettava viaggiatori, tra cui io, diretti a Cienfuegos-. Altro che Ulisse con le sirene, con buona pace del Viaggiatore con la V maiuscola.
Il nome della città richiama a quello di Camilo Cienfuegos, militare decisivo per la revoluciòn, morto in guerriglia, morto dimenticato, morto mai esistito, perlomeno per me, ma non per i tanti cubani né tanto meno per il Che, che diede al suo primogenito il nombre del suo amico.
Ma Cienfuegos città non ha niente a che fare con il Cienfuegos rivoluzionario. Non esiste legame. Una fake news a tutti gli effetti. E’ stato un bel tiromancino, purtuttavia spero mi possiate assolvere alla notizia che Camilo è riconoscibile peraltro anche dalla sua effigie presente nella moneta locale, sempre utile indicatore della realtà locale.
Persi nella storia di Cuba, giungiamo al centro dell’isola, Trinidad. Dire che è patrimonio dell’Unesco dà inequivocabilmente un tono di autorità e prestigio e, conseguentemente, di turismo alla città. Ma tant’è. Gatti, mojito e Buena vista social Club.
Tre ricordi, tre momenti speciali dell’italianizzata Trinità. Ed infine il mare, di Varadero, nell’ ennesima provincia raggiunta con i mezzi che si sono incontrati nel percorso (di sopravvivenza). Paracadutismo e onde, parole intercambiabili nei giorni di permanenza.
L’Habana merita un discorso a sé. Cadremmo nel banale a sottolineare le ovvie contraddizioni che il regime porta con sé e che sono esemplificate dalla città più emblematica. Cose trite e ritrite. Descriverla è impossibile, poiché nel descrivere compiamo l’atto del racchiudere, ponendo quindi limiti a ciò che realmente è. Unico consiglio che mi sento di condividere, quindi, è il seguente: perdersi camminando nelle vie dell’Habana vieja, comprare sigari in posti non adatti a vendere sigari, fumare vegetariano nonostante il vegetarianismo sia severamente punito, essere stanco di bere le solite due birre locali, ascoltare senza fastidio le persone che , per natura di cose, entreranno nella tua anima.
Una di queste si chiama Reina, non è mai uscita dal suo quartiere, è madre, moglie, affittacamere, cuoca meravigliosa, dall’animo nobile, con tuttavia una malcelata tristezza, percepibile nei suoi occhi cristallini, di un azzurro che fa spavento, quasi che, guardandola, riesca a mostrarti le difficoltà che non le sono certamente mancate nella sua vita. Ma il suo sorriso, unito alla sua travolgente risata, hanno la funzione opposta del fulmine e del tuono. Rassicurano infatti, nonostante ricordino che la tempesta sia sempre lì.
Simone Zanotti