Cosa mi ha colpito, dopo 90 giorni in Birmania
Da tre mesi vivo a Yangon. Conoscevo ben poco della Birmania. Non sapevo perché si chiamasse Myanmar (se vi interessa leggete questo articolo del Post). Non sono uno di quelli che è cresciuto con il mito di Aung San Suu Kyi (ASSK, dicono qui), ma sapevo però, a grandi linee (grandissime), la sua storia. Sapevo che nel 2015 si erano svolte le prime elezioni libere (che poi non sono state le prime, ho scoperto vivendo qui, solo che l’altra volta l’esercito le aveva annullate), ma non sapevo bene libere da cosa e da chi.
Un momento perfetto per vedere la transizione in Myanmar, mi dicevano. Si sta democratizzando.
Quello che è certo, e che si può notare semplicemente parlando con le persone, è il consenso. Si trovano foto di ASSK e del padre in molti luoghi pubblici. Ci sono circoli della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il suo partito, in ogni angolo della città. Lei non è presidente a causa di una clausola nella costituzione che impedisce a chi ha discendenza straniera di diventare presidente (cavillo taylor made inserito dal regime militare). Ma di fatto comanda lei. È consigliere di stato e ministro multiplo.
Quello che non può non colpire sono le ancora tante contraddizioni nella società. Ci sono ancora moltissime questioni spinose, che, per adesso, ancora non sono state affrontate. Alcuni dicono che ci vuole del tempo. I più maliziosi che ci vogliono altre persone e altre leggi.
Il Myanmar è un paese in guerra, ma con se stesso. È una guerra tra etnie. Il gruppo etnico principale è quello dei Birmani -Bamar, che sono il 70%-, più o meno quello di tutti i potenti e dell’esercito che ha guidato il paese con una dittatura per decenni; ce ne sono tanti altri, che, per farla semplice semplice non si sentono birmani e vogliono indipendenza e più diritti (i più famosi sono gli Shan, i Karen, i Rakhine, i Chin e i Mon). Hanno i loro eserciti, e combattono contro il governo centrale. Sono state organizzate conferenze per accelerare il processo di pace e sono stati firmati accordi di cessate il fuoco, ma pare vengano rispettati poco e male. Questa cosa mi ha affascinato un sacco, perché mi è parso di capire che non sono sentimenti che coinvolgono solo una percentuale della popolazione di quelle etnie, ma la maggioranza. È come se il paese fosse stato unito un po’ in maniera raffazzonata perché si doveva fare, ma con persone che non hanno (e forse non avranno mai) lo stesso spirito di identità nazionale.
C’è poi la questione internazionalmente nota dei Rohingya, l’etnia islamica che vive al confine con il Bangladesh e che non gode di diritti di base (cittadinanza, voto, proprietà) ed è perseguitata dalla maggioranza (qualcuno parla di genocidio). Subiscono la stessa retorica che viene utilizzata contro gli immigrati in Europa dai nostri partiti xenofobi. Perché ASSK non fa nulla? I giornali internazionali scrivono, forse un po’ superficialmente, che anche lei ha le mani sporche di sangue. In realtà è probabilmente molto complicato agire sulle questioni spinose quando l’esercito (Tatmadaw) è ancora potentissimo, ricchissimo, e per costituzione ha diritto al 25% dei seggi in parlamento (per cambiare la costituzione, servono il 75% più uno dei voti), e quando la maggior parte della popolazione è d’accordo con la discriminazione. Forse per agire con delle politiche progressiste da un lato bisogna non tirare troppo la coperta dall’altro, dicono alcuni.
La capitale è stata spostata da Yangon a Nay Pyi Daw (fondata per l’occasione) nel 2005, perché più centrale al paese. Quelli che fanno peccato, ma che forse ci azzeccano, dicono per allontanare la burocrazia e il parlamento dall’influenza internazionale –UN, World Bank e Ambasciate- che continuano ad essere tutte a Yangon. Le politiche verso l’aiuto internazionale e gli investimenti esteri sono un po’ ambigue, mi è sembrato di cogliere in questi mesi. Da un lato c’è la voglia di attrarre investimenti e capitale, dall’altro la paura, forse giustificata, di dare troppo potere a organismi internazionali che, se agiscono in maniera errata, creano distorsioni nel mercato e spaccature nella società.
A Yangon noi tutto questo non lo vediamo, non lo sentiamo, e probabilmente viene anche fatto di tutto per fare in modo che ne sappiamo il meno possibile.
Qua sì che si vede lo sviluppo, come ce li immaginiamo noi occidentali. Grattacieli e nuovi edifici crescono a vista d’occhio, i bar alla moda aprono come funghi, ci sono ottimi ristoranti italiani. C’è persino un tizio che fa la mozzarella e te la porta a casa. Puoi bere un whisky invecchiato su un rooftop guardando la Shwedagon Pagoda. Con la democratizzazione sono arrivate le organizzazioni internazionali e noi expat, che ovviamente abbiamo portato bisogni diversi ma anche più denaro, e quindi viene fatto di tutto per accontentarci.
Mi piace Yangon. È affascinante, ha un bel centro coloniale, è molto verde. Si sente la storia, è un po’ come Roma. La gente è quella di quel tipo che non capisci chi glielo fa fare di essere così gentile. Sorridono sempre, soprattutto con gli occhi. C’è un traffico bestiale, e fa un caldo infame, è un casino tutto, ma ci si sente a casa.
La seconda cosa che mi ha colpito è l’importanza della religione nella vita delle persone. E dire che da italiano, dovrei esserne abituato. Quasi il 90% della popolazione è Buddhista, fortemente credente e praticante. Non capiscono il concetto di ateo e agnostico, nel vero senso della parola: non lo concepiscono. Tutti, prima o poi nella loro vita, passano un periodo più o meno lungo in un monastero per capire l’importanza della spiritualità e dei monaci nella società. Pregano, più volte al giorno. La vita è scandita da rituali religiosi. I tassisti, quando passano nella strada che costeggia la Pagoda Shwedagon, chiudono gli occhi, congiungono le mani sul volante, e pregano. Tu, seduto dietro, ti unisci a loro nella preghiera, ma per un motivo diverso.
Viaggiare è relativamente semplice, ci sono molti aeroporti sparsi per il paese e un sistema (quasi) efficiente di bus notturni. I luoghi di interesse turistico non mancano di certo: dalle antiche città imperiali, alle spiagge con mare cristallino, a splendidi paesaggi rurali, alle montagne, con la fine dell’Himalaya a nord.
Di sicuro è il momento giusto per essere qui, stanno succedendo un sacco di cose.
Ed è anche un buon momento per fare i turisti. Però non fate come me, che sono un villano, soprattutto se ci venite per poco tempo: documentatevi prima sulla storia del paese, si comprendono meglio un sacco di cose poi quando siete qui. Non è un turismo per vedere la natura, ma per capire la storia e quali sono le ragioni che hanno causato le contraddizioni attuali.
E allora, visto che qui si parla anche di libri, consiglio, su indicazione di un amico francese, The River of Lost Footsteps: A Personal History of Burma, scritto da Thant Myint-U, storico birmano laureato a Cambridge e Harvard, figlio di U Thant, terzo segretario generale delle Nazioni Unite.
Nicola Amoroso
Nota: tutte le foto sono state scattate da me, tra il 9 gennaio e il 2 aprile 2017, a Yangon e dintorni. Se vi interessa ho anche un blog, molto meno serio di così.