Come andare al lavoro e sentirsi liberi
L’altro giorno sono andato alla festa dei 30 anni di Eleuthera, casa editrice per la cultura libertaria (ne abbiamo già parlato su SALT). Vino, musica, bella gente e libri al 50%. Ho riempito lo zaino di un sacco di cose interessanti. Tra i vari, ho comprato Contro il lavoro, di Philippe Godard.
“L’idea che si insinua nel processo lavorativo è quella di un controllo dell’ambiente circostante, considerato quanto meno estraneo all’uomo, se non ostile, e comunque qualcosa che può e deve essere governato e dominato. […]
Critiche erronee ci hanno indotto a credere che il lavoro attuale sia nefasto solo perché procura un profitto a chi non lavora, ai parassiti, o perché sfrutta ferocemente i lavoratori, o perché nella sua versione capitalistica non ha etica.. come se non fosse il lavoro in sé a essere nocivo. Come se il profitto non fosse inscindibilmente legato al lavoro e l’appropriazione non fosse il fondamento di ogni economia. Come se si potesse lavorare senza essere sfruttati. Come se il lavoro potesse adattarsi a un’etica della liberazione e coabitare con essa. In realtà non abbiamo scelta: lavoro o liberazione. […]
Dal passaggio dalla caccia-raccolta all’era della produzione (razionalmente conveniente), possiamo trarre la conclusione che bisogna evitare la ricerca del razionale perché porta direttamente all’asservimento. […]”
Nell’introduzione del libro, Andrea Staid scrive “dopo tanti anni che si fa lo stesso lavoro, si sa fare solo quello, diventiamo degli esperti, ma solo dell’attività che siamo costretti a fare per un salario. Il lavoro impedisce l’invenzione. E la sperimentazione di rapporti più ricchi e articolati, ci priva della gioia del saper fare tante attività diverse. E di farle non perché dobbiamo ma perché ci sembra giusto e necessario farle per la nostra comunità.”
Riassumendo il giro: il lavoro è innanzitutto tentativo di controllo e dominio della natura, perché razionalmente conveniente. Con la meccanizzazione e poi la digitalizzazione del lavoro, la complessità dell’ambiente circostante aumenta esponenzialmente. Controllare tale complessità è assolutamente difficile, e spinge alla specializzazione estrema. La specializzazione impedisce l’invenzione: sono preclusi rapporti articolati, attività diverse e, come sappiamo, la novità nasce solo dalla contaminazione. In ultimo, la specializzazione costringe alla chiusura e alla schiavitù. E’ così, da sempre. Alla fine del neolitico, agli albori della storia, grazie a un periodo climatico favorevole, aumentò il raccolto. Le persone impararono a conservare il cibo. Per la prima volta mancò la spinta primaria, “cosa mangerò stasera?” Per questo si poterono specializzare i lavori, e alcune specializzazioni vennero più riconosciute delle altre, sia dal punto di vista politico che economico (innanzitutto soldati e sacerdoti). Nacque così la società delle gerarchie e del dominio.
Di mestiere, aiuto le aziende a innovare il modo in cui le persone collaborano e innovano. Per ottenere i risultati, non forniamo solo gli strumenti informatici (sistemi che assomigliano ai vari whatsapp, facebook, google drive, youtube, e gli altri), ma soprattutto cerchiamo pian piano di modellare quello che le persone pensano di cosa vuol dire lavorare. Lavorare non è più seguire gli ordini del capo, ma trovare da sé il lavoro che c’è da fare. Lavorare non è più stare in ufficio 8 ore al giorno, ma cercare di essere sempre nelle condizioni migliori per creare, al di là di vincoli di orario e luogo. Lavorare non è più seguire procedure seduti alla propria scrivania, ma ogni giorno pensare e proporre nuovi modi per organizzare sé e il proprio team. Lavorare non è più specializzarsi in uno specifico ambito, ma essere in grado di leggere gli spazi vuoti tra una specializzazione e l’altra e saperne cogliere innovazione.
Non ci sono ordini, non ci sono procedure, non ci sono vincoli di orario e luogo. Il controllo gerarchico non regge, crolla: tutti sono responsabilizzati, in questo modo la complessità è distribuita e può essere gestita. Per innovare non si fa più ricorso a un eventuale comitato di innovazione, che si tiene una volta al mese se va bene: tutti i membri dell’organizzazione hanno la possibilità di catturare innovazione e portarla in azienda, ogni giorno.
Eppure Godard mi dice che non è possibile scindere il concetto di lavoro da quello di controllo e dominio e io, in fondo, sento di non potergli dare torto.
Possiamo lavorare dovunque e a qualunque ora, così lavoriamo ovunque e sempre. La comunicazione è facile e rapida, così ogni cosa diventa urgente e va risolta subito, facendoci perdere il senso del tempo. Al nostro lavoro dedichiamo la grande maggioranza del nostro tempo e delle nostre energie, ma ne vale davvero la pena? L’ultima vera motivazione, l’unica che non crolla, non rimane forse quella di portarsi a casa il dollaro? Quella di garantirsi un futuro solido e ricco di certezze? Quella di apparire persone realizzate, di successo? In ultima analisi, di avere controllo sulla propria vita? Ecco che la necessità di controllo ritorna, in altre forme. E così, il lavoro è ancora schiavitù.
Come faccio quindi stamattina ad accettare di andare in ufficio a lavorare?
VADO SENZA MUTANDEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE
Raga, vado senza mutande. Senza mutande.
Ma avete provato?
Quella cosa che tu lo sai ma non lo sa nessun’altro, e tu ridi sotto i baffi.
Quella frescura che neanche il deserto e quell’immaginario che spazia da Aladdin alle piramidi di Giza sui sussidiari delle elementari tanto per intenderci, cammello -o dromedario?!- incluso (questo).
Quel piacevole solletico.
E’ così, da sempre. Alla fine del neolitico, agli albori della storia, grazie a un periodo climatico favorevole, la gente iniziò a sudare. La gente non tollerava più di puzzare in presenza di altri individui. Pudore atavico, frutto di Adamo ed Eva. Così inizio a cercare di controllare sé, la propria vita, e la mutanda fu il primo rimedio.
Togliete le mutande.
Contro il lavoro
Philippe Godard
Eleuthera, 2010
Vuoi tenere le mutande ma sentirti libero lo stesso? Vai alla pagina 2 per un finale alternativo