Come un animale | La speranza di una primavera
io so che in certi casi è meglio non fare troppi movimenti
perché si va a fondo più lentamente
Quasi al fondo di Stanze – uno dei pochi classici dell’alt-rock italiano anni novanta che ancora si possono ascoltare con vero coinvolgimento emotivo, oltre che con ammirazione – Emidio Clementi lascia cadere, con il solito distacco altero, uno dei one-liner più devastanti dell’intera produzione dei Massimo Volume. Parla della necessità di muoversi, Tarzan, di un cambiamento purché sia, e, a rimetterla sul piatto ora, quella canzone e le sue sabbie mobili sembrano la migliore descrizione possibile per lo stato di serendipità negata in cui siamo costretti da quasi un anno a questa parte.
Sono settimane, queste, in cui mi è particolarmente difficile sopportare questa modalità di risparmio energetico, questo fare il meno possibile per non accorgersi di quello che manca. Al di là delle certezze che anche molti amici – beati loro! – dicono di avere, “cosa faremo quando tutto sarà finito?” è una domanda a cui io non so bene che rispondere, come se il nuovo vocabolario della solitudine che ho dovuto imparare mi avesse tolto le parole giuste per dire cosa significhi stare in mezzo agli altri. Perché è questo che manca – non i concerti, non il cinema in sala, non i viaggi o gli aperitivi: mi mancano gli altri, mi mancano tutti.
Certi giorni non è sufficiente il ricordo di tempi pieni di possibilità, così come non è sufficiente l’ovvia consapevolezza che a un certo punto, prima o poi, torneranno i prati – in una bellissima scena di uno dei miei teen movie preferiti, Fucking Amal, la ragazzina protagonista ricorda al padre che è inutile che lui le dica che sarà felice in futuro: lei vuole essere felice adesso. Certi giorni non è facile trovare un antidoto a questa visione a tunnel, vivere delle microvariazioni della nuova realtà; mi domando, in fondo, se quello che scambiavamo per una vita piena, prima, non fosse in realtà solo una sequenza molto fitta di incontri, impegni e prenotazioni in cui non ci preoccupavamo troppo del senso, di ciò che contava davvero per noi.
E mi rispondo da solo: se sono ancora qui, dopo tutto questo, è perché in questa lunga notte riesco a distinguere dei bagliori dal passato che hanno la forza di rappresentare per me la speranza di una nuova alba.
Per esempio questa immagine, l’arancio di un tramonto bolognese di fine estate fra i più belli che ricordi. Stavo in Piazza Maggiore con Andrea – non il solito Andrea dei miei mille articoli qui su SALT, un altro Andrea – seduto sul Crescentone insieme a migliaia di altri ragazzi, rapito da una magia di concerto: al centro, come un falò confortante in mezzo al buio che calava, stavano i Fast Animals And Slow Kids.
Il tour era quello trionfale di Animali Notturni, e, come per ogni altro tour di Aimone, Alessandro, Alessio e Jacopo, li avevo già visti parecchie volte – qualche giorno dopo mi sarei regalato una tirata andata/ritorno Bologna-Perugia da solo in auto. Ma quella sera era tutto diverso: non il consueto, sudatissimo rito laico di pugni levati al cielo e ritornelli urlati fino a perdere la voce, ma un’esibizione acustica, raccolta e nuda, di quelle che – almeno in questo minuscolo angolino della musica pop/rock suonata con le mani – ti mostrano la differenza fra chi usa il rumore per nascondere lacune e chi invece sa scrivere canzoni.
Erano emozionati quanto noi che ascoltavamo, loro, come se sentissero ancora più forte una responsabilità precisa nei confronti delle vite di chi stava lì – non un pubblico, ma persone. Ne venne fuori una serata indimenticabile, tra classici vecchi e nuovi e il finale di A Cosa Ci Serve in cui, in barba alle ordinanze comunali, ci alzammo tutti in piedi per stringere il cerchio intorno a quegli sgabelli che improvvisavano un palco disadorno. E poi ci disperdemmo tutti nella notte tiepida, ognuno – sono quasi sicuro – portando con sé una luce diversa, una presa di coscienza del potere curativo e collettivo della condivisione.
È questa sensazione di necessità che mi tiene stretto ai Fast Animals And Slow Kids più di ogni altra cosa e più che a qualsiasi altra band, quella che da otto anni mi lega ai loro palchi e mi fa trepidare a una nuova uscita – e poco importa che poi questo bisogno si sia manifestato nella forma di un oceanico coro emo (Come Reagire Al Presente), di un inno indie-rock (Forse Non È La Felicità) o di una veloce gemma jangle-pop (Non Potrei Mai). Una necessità che mi fa aderire ancora come una seconda pelle un macrogenere – il pop chitarristico – che quasi chiunque altro io conosca declina in modi che non mi accendono più, appiattiti sulle canzoni e incapaci di evocare altro, pura estetica senza etica e anima.
A mezzanotte è uscito il nuovo singolo Come Un Animale. L’ho già ascoltato mille volte, grato: quell’emozione è ancora tutta lì.
Tra la fine anticipata del giro di concerti a supporto di Animali Notturni e Come Un Animale sono passati solo sedici mesi, che però sono sembrati un’eternità – il silenzio non è una condizione naturale per questa band: di mezzo c’è stata solo Come Conchiglie, una canzone registrata alla bell’e meglio nel periodo più cupo del primo lockdown. Le ho voluto bene, l’ho canticchiata mentre cercavo di abituarmi di nuovo all’aria aperta; ma la distanza forzata fra i musicisti e gli occhi grigi di malinconia si percepivano distintamente anche al netto del lo-fi obbligato.
Avevo paura che l’anno trascorso portasse via ai FASK la caratteristica più distintiva, quella capacità di suonare brucianti e come-una-cosa-sola nonostante un’attenzione maniacale ai dettagli di studio – le trentadue sovraincisioni di chitarra di Novecento saranno pure una leggenda metropolitana, ma se uno presta attenzione a quei layer non potrà che notare una complessità totalmente funzionale al grandioso impatto melodico.
A far vacillare quella paura è bastata una foto pubblicata sui social network – la band, di spalle, lasciava una sala di registrazione – e a me è arrivata fortissima la sensazione di un legame di sangue troppo forte per poter essere messo in discussione dal contingente. E, insieme, la sensazione che quello che avrei ascoltato avrebbe avuto la consueta tridimensionalità.
Puntuali, i primi colpi di batteria di Alessio in Come Un Animale hanno spazzato via come vento impetuoso quel che rimaneva dei miei dubbi. Quelli, e il riff subito successivo, rendono evidente la continuità con il lavoro precedente, che invece era stato un gran salto – per intenzioni, scrittura ed esecuzione – rispetto a Forse Non È La Felicità.
Una ritmica dritta, l’ipnosi stordita dei War On Drugs che muta in euforia e stamina; un incastro micidiale di chitarre, tastiere e basso – impressionante, la presenza sonica del quattro-corde di Jacopo – come dei New Order trascinati allo stadio dallo Springsteen larger than life di metà anni Ottanta e da una produzione sfavillante: quando tutto si ferma per un istante prima dell’ultimo ritornello, una di quelle cose che agli Arcade Fire non riescono più da un decennio buono, non è difficile immaginarci a migliaia a digrignare i denti con Aimone.
Di mezzo c’è tutto quel che sognavo, a partire dal songwriting di Alessandro, conoscenza enciclopedica della storia del pop e talento cristallino con una predisposizione naturale all’arrangiamento raffinato – il riff post-punk all’attacco della seconda strofa che poi ritorna nel bridge; le pennate di acustica del pre-chorus. Parallelamente, le liriche regalano l’usuale introspezione e almeno un paio di versi assassini (“non guardarmi i denti / sai anch’io so farti a pezzi / coi miei difetti”): a un primo ascolto meno d’impatto rispetto al passato, il testo è invece lo specchio di un’evoluzione bella e coerente, che ha levato ad Aimone ogni residuo di ansia da prestazione e overemoting lasciando viva la fiamma di un fuoco comunicativo inestinguibile – quello che in Canzoni Tristi era un desiderio, ora è pura verità: ormai canta davvero “soltanto quello che gli va”.
Le chiacchiere al bancone del bar, il locale che chiude, la notte in tram: bastano poche immagini per mostrare il cuore puro dei Fast Animals And Slow Kids, quattro ragazzi di Perugia cresciuti davanti ai nostri occhi e per cui la musica pop, tramite il racconto di sé, continua a rappresentare una conversazione, una mano tesa, una macchina per l’empatia. E che tutto questo trovi sempre il modo di avere senso anche in relazione al mio presente è solo l’ultimo indizio di un’attenzione alla connessione con gli altri che non smette di lasciarmi sbalordito.