Come inizia la fine del mondo: viaggio ad Angkor, Cambogia
Puntare la sveglia alle 4 del mattino, sentirla, spegnerla con gli occhi impastati ma già illuminati, sfoderare dal fondo dello zaino l’unica felpa che ti sei portato e montare in sella ad una bici sgangherata, battito che accelera e muscoli che si attivano.
La mappa ce l’hai? E la macchina fotografica?! E il biglietto con la fototessera?
Stai pedalando verso Angkor, é ancora buio: la città di Siam Reap si risveglia, ammaccata e polverosa. Le insegne luminose dei bar per turisti rumorosi e assetati sono spente da poco, le peggiori compliation di sempre lasciano campo libero alle cicale, che pure loro sembrano avere un accento tutto particolare e quell’intonazione acuta che tanto spopola nel sud est asiatico.
I venditori più accaniti sono già (o ancora?) dietro al loro carrello a vendere street food e smoothies da favola. E’ qui, o nei mini market che non chiudono mai, che gli autisti di tuk-tuk fanno qualche scorta prima di andare a recuperare i clienti che li han prenotati per la giornata intera.
Dal sellino della bici si intravede di tutto: le ville sfarzose, l’immondizia nel fiume, i banchi pieni di frutti buonissimi, le piantagioni di fiori di loto, le strade asciutte che si ritagliano uno spazio tra le case in terra battuta. L’aria é ancora frizzante, quasi fresca. Bisogna approfittarne.
Pedalare i sette chilometri che separano Siam Reap dall’antica capitale dell’impero Khmer lascia il tempo di marcare la distanza tra il mondo posticcio e caotico della città moderna e le vestigia dell’antico splendore geometrico di mille anni fa. Il viale alberato che porta all’ingresso principale é una sorta di galleria verso quest’altro mondo, immerso nella natura e ancora avvolto in un’affascinante penombra. Grazie a dio pure l’omino che vende il caffé é riuscito ad arrivare fino a qui.
Sono le 4:40 e sei davanti a Angkor Wat, non puoi sbagliarti. L’hai visto su centimilia cartoline e riviste ed é la star indiscussa del sito archeologico, nonostante l’area conti almeno 74 templi, qualche briciola rispetto ai 1000 dell’epoca in cui Angkor era la più grande città pre-industriale del mondo, col suo milione di abitanti. Due dollari per il Cambodian Coffee. Ben spesi, devo dire.
A Siam Reap i turisti pagano tutto in dollari, anche perché prelevare in Riel é impossibile: tutti i bancomat rilasciano bigliettoni verdi, che, per inciso, rendono tutto più caro e pure un pò meno autentico. Pagatelo un po’ come potete, comunque sia, quello cambogiano é un caffé tutto particolare, dal gusto intenso e quasi un po’ pastoso, al top con ghiaccio e zucchero (non me ne vogliano i puristi). Lo bevo rigorosamente con la cannuccia, una mano sul manubrio e gli occhi all’insù.
Le torri ogivali cominciano a distinguersi nettamente dallo sfondo, sempre più chiaro. I tuk-tuk scaricano superstiti a pelli arrostite e colpi di caldo, i pullman liberano stuoli di cinesi con il selfie stick e giapponesi in tenute tecniche che manco Dora l’Explorer: scenari apocalittici.
Il dilemma esistenziale circa il da farsi é da risolvere al più presto, e decido di continuare a pedalare: non avrò la tanto desiderata foto dell’alba ad Angkor, ma quantomeno mi sarò goduta la magia sopraffina di questo luogo senza avere turisti con pose da maestri di yoga alle calcagna. Scelta che si é rivelata incrediblmente strategica oltretutto, ché implica avere un certo margine di vantaggio rispetto agli altri per buona parte della mattinata…anche se siete in bici e loro in elefante (true story).
Ebbene, vale la pena di addentrarsi nel parco, superare i ponti sui canali sorvegliati da leoni e naga, infilarsi orgogliosi nella porta antica della città, sfrecciare snobbando le scimmie che si rincorrono a fianco del percorso e, che meraviglia, ritrovarsi senza più parole -né fiato- davanti al tempio di Bayon. E sorridere davanti ai volti sorridenti scolpiti sulle sue guglie, ritrovare la pace interiore e la lucidità di capire, mappa alla mano, da dove mai sorgerà il sole qui nella zona dell’Angkor Thom.
Il Royal Palace. E’ lui il prescelto. Sicuramente un tempio minore, non c’é nessuno. Nessuno proprio, nemmeno un guardiano né un monaco solitario. Il che implica che nessuno mi ferma, voglio salire il più alto possibile, prendo una scalinata scapestrata ed eccomi lì, con l’espressione ebete-fiera da Indiana Jones a godermi lo spettacolo imminente e tanto atteso seduta su un enorme blocco di arenaria.
Che poi il sole é uscito per davvero, e pure senza troppe smancerie né contrasti scenici a dire il vero, ma avvolto da un Silenzio sacro e potente. Un alone di Storia che dava senso a tutto, mettendo a tacere il battibeccare dell’oggi superficiale ed egocentrico, risvegliando la pietra -anche oggi- e consegnandola ad un altro giorno di imperitura gloria.
Alle 5:18 accendo la mia macchina fotografica. Che é scarica. Tutto perfetto.
Elisa Cugnaschi