Colossal, i mostri nella testa di Nacho Vigalondo
Ci sono vari tipi di film strani. Ci sono i film allucinati, che guardi una volta sola e ti rimangono dentro; film che avresti preferito non guardare. E poi ci sono film strani che fanno centro, per la loro stranezza e per qualcosa in più che li rende classici istantanei. Questa volta Nacho Vigalondo ci è riuscito e con Colossal ha fatto il botto.
Chi è Nacho Vigalondo, e soprattutto, che serietà può avere un regista che si chiama “Nacho”? È un regista primo della classe spagnolo, che si è fatto conoscere con un paio di ottimi film (Los Cronocrimenes, in primis) in lingua, per poi sbarcare nella grande America con una valigia piena di sogni e l’idea di poter sbancare Hollywood con qualche super trovata. Il primo tentativo è stato dimenticabile: Open Windows è uno scialbo thriller con Elijah Wood e Sasha Grey inutilmente vestita, tutto girato su schermi di PC. Dimenticabile, ma l’idea in sé era buona, vero Nacho? Il secondo colpo, invece, va a segno. E nella maniera più inaspettata.
Colossal non è esattamente quello che uno si aspetta: è la fusione perfetta (?) fra La mia vita a Garden State (preso come prototipo della commedia indie) e i mostri grossi di Pacific Rim o il vecchio Godzilla che sputa plasma. E potrebbe lasciare delusi quanti si aspettano dal film una commedia indie da una parte o un film di mostri, dall’altra. È entrambe le cose, e nessuna delle due. Grande Nacho, e ora? Come ci arriviamo alla fine delle due ore?
Il miracolo vero è che questa unione funziona alla grande.
Gloria (Anne Hathaway) è una ragazza che ha appena perso il lavoro, con evidenti problemi di alcolismo, per i quali viene lasciata anche dal fidanzato. Distrutta dalla vita, decide di tornare al paese dei suoi genitori dove incontra un vecchio amico, Oscar (Jason Sudeikis), che si offre di aiutarla e le trova un lavoro e dei mobili. Molti mobili. Fin qui tutto funziona come se Zach Braff ci avesse messo le mani, carta da parati a parte. Al minuto 16 del film un enorme kaiju (per i non avvezzi: è un tipico mostro grosso giapponese, si prenda Godzilla come prototipo) attacca Seul. Al minuto 20 Gloria capisce che il kaiju è un suo avatar che compie esattamente i suoi gesti, quando la protagonista si trova in un preciso parco giochi, col rischio di ammazzare migliaia di persone. Il resto del film è un crescendo straordinariamente riuscito, al centro del quale si trova il rapporto fra Gloria e Oscar (anche lui dotato di avatar coreano, questa volta un robottone tipo jeager), che si rivela molto meno positivo di quanto sembrerebbe all’inizio.
È vero, i mostri ed i robottoni sono leggermente sacrificati all’altare della controparte indie, ma anche quest’ultima si perde nella prima metà. Ciò che rimane è la fusione fra i due, il cui ibrido crea un ottimo thriller psicologico, diretto spedito verso un finale clamoroso per ironia ed epicità, al contempo. Sudeikis è il responsabile del cambiamento maggiore, vero mattatore nel passare da amico gigione a dominatore morale. La maturazione psicologica del suo personaggio è ben calibrata, nasce dalle crepe della sua personalità e cresce. Lui è il mostro di se stesso, incapace di vincere i propri demoni di periferia e fallimenti umani, e la sua trasformazione porta a galla proprio il suo lato “mostruoso”. Dall’altro lato, la Hathaway riesce a domare il proprio mostro personale, tanto da trovare il proprio posto nel mondo. Perché la metaforona che regge il film è proprio questa. Tutti hanno al proprio interno un mostro, un demone con cui lottare, che rappresenta la propria parte più negativa. Difficile combatterlo, ancor più difficile vincerlo. Oscar/Sudeikis ci ricorda che spesso è lui, il mostro, a prendere il sopravvento, sembrando l’unica cosa giusta possibile. Il personaggio di Gloria, invece, capisce che negarlo è impossibile. Bisogna saperci convivere ed usarlo, quando serve, per i propri scopi. Solo imbrigliando il proprio mostro, senza averne più paura, Gloria riesce a sopravvivere a se stessa ed alla sua vita. Cambiandola, forse.
Il secondo Miracolo di Nacho, dopo aver reso credibile una siffatta trama per oltre due ore di film, risiede proprio nella recitazione di Anne Hathaway, che per la prima volta da tempi immemori non piange (quasi) mai per tutta la durata del film. Applausi. È spiacevole rimanere bloccati dentro lo stereotipo di un personaggio interpretato in passato. È difficile se questo personaggio è un maghetto sfregiato; lo è ancora di più se si tratta di una prostituta calva e senza denti che muore male nella Parigi di metà ottocento. Così la povera Anne si è portata dentro Fantine per tutti questi anni, scoppiando a piangere in ogni film al ricordo della tisi. In Colossal, invece, Nacho le fa indossare tutta una serie di espressioni buffe da commedia, per poi permetterle di recitare veramente (e lo fa molto bene), quando, finita la commedia, inizia la redenzione. Lo sconforto e successivamente la determinazione diventano i principali attori, e la Hathaway riesce a manifestarli entrambi con grande capacità. E mena pure le mani. Senza versare una lacrima.
Il regista riesce nell’impresa di utilizzare materiale noto (commedia/mostri) per creare qualcosa di nuovo e profondamente personale. La sua regia riesce a modellarsi durante lo svolgimento della trama, aumentando la durata delle scene e riducendo i tagli temporali man mano che la commedia degrada verso qualcosa d’altro, riuscendo a realizzare grande cinema nel riuscitissimo finale. La sua più grande cifra è, senza dubbio, una colossale autoironia, a partire dal titolo, che rimanda a film “grandi” (per budget e tematiche) ma anche alle dimensioni degli avatar. Gli si perdona anche una metaforona di base piuttosto facile (il mostro dentro di noi), utilizzata però in maniera sorprendente e per nulla scontata.
E la spiegazione della presenza degli avatar è comunque più credibile dell’amore che è più forte della gravità e piega il tempo (#mannaggiaNolan). Bravo Nacho. Adesso ti voglio vedere a proseguire in questa direzione!
Titolo originale | Colossal
Regia | Nacho Vigalondo
Anno | 2016