Cold Skin; di quando il nostro universo ne intersecò un altro più interessante ma meno coraggioso
Regia: Xavier Gens | Anno: 2017 | Durata: 103 minuti
The Shape of the Water l’avete visto tutti vero? Dai, è stato il grande protagonista della stagione Oscar 2017, ha fatto definitivamente conoscere il cicciopanzo messicano al mondo e persino io – pur reputandolo parecchio inferiore a Il labirinto del fauno – gliene riconosco delle qualità oggettive.
Come reagireste però se vi dicessi che c’è un universo parallelo in cui The Shape of the Water, invece che una fiaba romantica, è un fantasy-horror che parla della prima Guerra Mondiale e che questo universo e il nostro si sono incrociati?
Correva l’anno 2016 e Guillermo del Toro stava covando un film pregno di rimandi favolistici alla cultura del mostro come creatura incompresa e alla donna come salvifica figura angelica. Contemporaneamente, da qualche parte nel multiverso, Xavier Gens girava Cold Skin: un film pieno di solitudine, ambienti inclementi, conflitto e metafore.
In un faro arroccato su un isolotto sperduto vivono due uomini: uno (Ray Stevenson – il Barbanera di Black Sails) è un rude uomo incattivito dalla vita, spinto sull’orlo della follia e che ha fatto della guerra la sua pace, l’altro (David Oakes) è un giovane romantico, uno che nemmeno ci doveva essere lì, vi è capitato quasi per caso perché, si sa, la sorte è carogna e così ora è bloccato a parlare coi venti in compagnia di quel bruto. A completare il triangolo c’è Aneris (Aura Garrido): creatura anfibia di sesso femminile catturata da Ray Stevenson e da lui tenuta come animale domestico/serva/schiava sessuale.
Fin qui tutto bene, se non fosse che ogni notte centinaia di altre creature escono dalle acque e attaccano in massa il faro – forse per liberare lei, forse per cacciare loro; non è chiaro e poco importa. Come in un home-invasion balneare, gli atlantidei si accaniscono con suicida determinazione a divellere assi e a scalare le mura mentre i due uomini fanno macelleria cercando di tenerli fuori.
Il tutto mentre si consuma l’Anno Domini 1914. Vi chiedo ora di ricordarvi le lezioni di storia di 3° media: cosa succedeva nel mondo (tranne che in Italia) nel 1914?
Ecco.
L’intuizione di Xavier Gens sembra evidente: girare un film che rimandasse, sia scenograficamente che concettualmente, ad un determinato periodo storico. Non necessariamente parlandone o usandolo come ambientazione (non è un horror storico come The Witch) ma creando dei parallelismi più o meno marcati con esso.
Che cos’è in effetti un home-invasion? Fondamentalmente la storia di pochi infelici che si trovano in una posizione difensiva (e.g. casa) e devono tenere fuori i cattivi facendosi vicendevolmente a pezzi in modi creativi (e.g. asce, motoseghe, picconi).
E che cos’è invece la prima Guerra Mondiale? Fondamentalmente la storia di pochi infelici che si trovano in una posizione difensiva (e.g. trincea) e devono tenere fuori i cattivi facendosi vicendevolmente a pezzi in modi creativi (e.g. mitragliatrici, lanciafiamme, gas).
Avuta chiara questa analogia, Gens mette il piede sull’acceleratore e non lo stacca per un’oretta felice. La guerra è infatti la vera protagonista del primo tempo: c’è quella reale sullo sfondo, urlata dai titoli dei giornali o accennata dalle corazzate che passano sull’orizzonte; e c’è la guerra dei nostri protagonisti che, asserragliati nel faro, sono assediati dal popolo di Atlantide e obbligati a condurre una guerra logorante tale e quale a quella di Verdun, solo che i nemici sono anfibi invece che crucchi. Non si vince e non si perde, ogni notte e sempre uguale e speriamo solo che il signor tenente ci mandi a casa per Natale.
Purtroppo c’è un motivo per cui è la seconda Guerra Mondiale – e non la prima – ad essere la preferita di Hollywood e del pubblico: la sua maggiore – o meglio più facile – cinematograficità. Nella seconda Guerra ci sono tutti gli ingredienti per fare un film classico: una minaccia crescente, eroici atti di resistenza, il provvidenziale arrivo della cavalleria alla fine. Persino il villain principale – con quel look assurdo e le idee stravaganti – è più simile a Voldemort che non a Napoleone.
Nella Guerra ’14-18 tutto questo non c’è e la responsabilità civile di 20 milioni di morti è più difficile da gestire non sapendo bene con chi prendercela se non con noi stessi (dai, venitemi a dire che la colpa è stata davvero di Gavrilo Princip).
Tale difficoltà si nota anche nel film poiché, si sa, confondere lo spettatore, fargli sorgere dubbi e metterlo in una posizione scomoda è un’attività mal vista da qualsiasi produzione cinematografica. Xavier Gens – esponente di quel movimento artistico noto come New French Extremism – è uno che con l’horror aggressivo ci si è pagato il mutuo eppure non riesce ad assumersi fino in fondo la responsabilità di girare un conflitto immotivato, una mattanza gratuita dettata solo dalla violenza che è insita in noi. Da circa metá film sente il bisogno di rallentare in onore dei sentimenti, dell’amore e della gelosia; tutti valori nobilissimi ma che mal si sposano con la Grande Guerra e che portano il film in zona Avatar o Pochaontas con tutta la pigra retorica ad essi associata.
Ma, tolte queste incertezze della seconda metà, Cold Skin resta un ottimo esercizio visivo e comunque originale, con un primo tempo che é una ventata d’aria fresca. Ottimo il trucco e la resa delle creature anfibie – piú antropomorfe di quella di Del Toro ma anche piú repellenti – così come le scenografie che ricacciano elementi steampunk ogni volta che ne hanno la possibilità. Le atmosfere paiono uscite direttamente dalle ultime pagine di Storia di Arthur Gordon Pym di Edgar Allan Poe, ma ricordano anche Verne, Lovecraft, Moby Dick, e in generale un certo tipo di romanzo d’avventura vittoriano che ci fa venire voglia di saperne di più di questo mondo parallelo al nostro.
Peccato appunto per la pervicacia con cui il film si ostini a dare poco rilievo alla sua mitologia per concentrarsi sulle liti amorose dei protagonisti. La prossima volta meno pippe e più geopolitica.