Games without frontiers. Il porto aperto dei C’mon Tigre
“Noi respiriamo certe atmosfere, le rimodelliamo e le facciamo nostre. Chi, come noi, è nato e cresciuto in una città portuale, respira le commistioni con i Balcani, la Grecia, la Turchia, e le percepisce come proprie, anche se non è così: è importante mantenere un equilibrio per raccontare solo ciò che effettivamente si può raccontare. Noi, per esempio, non abbiamo mai fatto “musica africana”: abbiamo solo unito i puntini di un disegno per noi perfetto, almeno a livello mentale.” (Da un’intervista uscita su Rumore 324)
Potrei citare tante ottime cose ascoltate in questo primo scorcio di 2019, ma a conti fatti gli album che mi stanno segnando in quest’ultimo periodo – e che penso mi porterò dietro a lungo – sono solamente tre: Eton Alive degli Sleaford Mods, consueta raccolta di biliosi sputazzi punk su ballabili incastri di basso e batteria; The Oracle della clarinettista Angel Bat Dawid, jazz sciamanico che compensa gli scarsi mezzi a disposizione con un’intensità esecutiva che somiglia talvolta a una possessione; e poi, oggetto forse più misterioso di tutti, Racines degli anconetani C’mon Tigre.
Arriveranno anche gli altri due, su queste pagine, ma del terzo sapevo che avrei scritto fin dal primo ascolto; prima di farlo, però, avevo bisogno di toccare con mano un’opera che non è fatta di sole canzoni e nemmeno si può definire semplicemente musica. Del resto, l’intervista a Rumore citata in cima alla pagina parlava chiaro: Racines, le radici dei C’mon Tigre, sono luoghi e atmosfere, ombre lunghe e spiagge assolate infilate in un lavoro che è – parole loro – “80% musica e 20% visuale”.
E così lunedì sera, mentre aspettavo una persona e un appuntamento importanti, ho investito dieci minuti del mio tempo per passare dal mio negozio di dischi preferito di Bologna – lo storico Disco d’Oro, un posto dove vi sconsiglio vivamente di entrare se avete a cuore senno e finanze: c’è tutto e di tutto, lì dentro – e portarmi a casa la versione in vinile dell’opera. Una quarantina di euro raramente investiti meglio: Racines è un doppio vinile da 180 grammi e un libro di 84 pagine di illustrazioni, dipinti, fotografie, fumetti da dieci artisti da tutto il mondo chiamati a illustrare ognuno un brano della scaletta secondo la propria visione. Un impatto folgorante – tant’è che Lindiependente l’ha già selezionato per un pezzo dedicato alle migliori copertine del decennio insieme a robetta come To Pimp a Butterfly e Blackstar – e però non un semplice artwork, ma piuttosto il vero compimento di un modo cosmopolita e onnivoro d’intendere l’espressione artistica: stanti queste premesse, il venirne travolti definitivamente era giusto questione di qualche giro sul piatto.
È divertente, alle volte, partire dalle note di un disco e mettersi a fantasticare su come potrà suonare. In questo senso, Racines lo si pronostica già da qui come un vero parco giochi per le ambizioni dei C’mon Tigre, duo che sa espandersi fino a farsi collettivo: non solo voci, basso, batteria e chitarre, qui, ma pure sax, tromba, trombone, vibrafono, moog, clavioline e talk box. Ora: mettete insieme questa lista e la visione dei musicisti sui concetti di appropriazione culturale e contaminazione espressi all’inizio, e sarà piuttosto automatico ritrovarvi immersi nell’esatto suono che si ascolta fin dai primi secondi di Guide To Poison Tasting (se vi pare che quelle partiture lente, sinuose e umide parlino di sesso, beh, ci avete preso: ad accompagnarle, nel libro, le fotografie erotiche di Harri Peccinotti); sulla stessa falsariga, il battito rallentato di 808 è un ricordo – e anche una specie di riflessione sulla necessità di lasciar andare un ricordo – dell’indimenticato Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, uno che se n’è andato troppo presto e ha fatto comunque in tempo a lasciarci moltissimo. Piccola nota nerd: occhio che la scaletta su Spotify è scombinata rispetto a quella dell’edizione in vinile, e giuro che cambia tutto.
Si sente l’Africa, in Racines, ma è un’Africa differente da quella sahariana di I Hate My Village, l’altro disco italiano significativo di questo periodo e che però al confronto di questo suona giusto come un’opera di buona qualità alla sola ricerca del groove perfetto. Lo sguardo affacciato sul mare dato dalle origini dei due musicisti si traduce invece in una sorta di Mediterraneo re-interpretato o addirittura onirico, di volta in volta sonnolento e sensuale, bradipico e scattante, pomeridiano e notturno: a musicare quel mare, influenze jazz, trip-hop, club, funk e da colonna sonora anni 70 o hip hop italiano anni 90; o, se volete un po’ di namedropping: Heliocentrics e Mulatu Astatke, LCD Soundsystem e BADBADNOTGOOD, Calibro 35 e In Zaire, Heroin In Tahiti e perfino Radiohead (più gli ultimi, a dire il vero, che non quelli d’inizio millennio citati nella recensione di Ondarock, anche se in più di un momento si materializzano davanti agli occhi le cascate di chitarre discendenti di In Limbo).
“La zona in cui siamo cresciuti ha vantato per decine di anni un’importante produzione di strumenti musicali. Si può dire che negli anni ’70/’80 era uno dei luoghi più importanti, che esportava strumenti in tutta Europa, marchiandoli con altri nomi. Facile per noi è stato reperire vecchi organi, pianoforti elettrici, microfoni, primissime drum machine, strumenti andati fuori produzione, e riuscire magari a farli sistemare da vecchi tecnici in pensione. […] Rispondendo alla tua domanda, questa è la base analogica che ci siamo ritrovati in eredità, e che viene mescolata col digitale per il semplice motivo che ci troviamo a far musica nel terzo millennio. Sarebbe anacronistico non mettere le mani sul digitale, non siamo dei puristi. La nostra attenzione è sulla composizione, senza imporci più limiti di quanti il nostro cervello non faccia già da solo.” (Da un’intervista a Billboard, questa)
Eccolo, lo shining dei C’mon Tigre: c’è una pazzesca ricerca timbrica, eppure la loro resta sempre musica per organi caldi. Il lato B del primo vinile è forse la sezione migliore dell’intero album: c’è il richiamo sessuale esplicito nella danza di Gran Torino; c’è la tensione da thriller di Underground Lovers, amplificata a dismisura dai dipinti di Gianluigi Toccafondo – come leggere/guardare un hard boiled attraverso la lente deformante di un incubo – e dal cupo rap dell’ospite Mick Jenkins; c’è il mantra in loop di Racines, accompagnato dalle immagini di thug life dello street photographer serbo Boogie (per approfondire, fate un salto a questa intervista del New York Times di qualche anno fa).
Si cambia disco sul piatto e subito riprende il groove: Behold The Man, uno dei singoli scelti per anticipare Racines, suona come una versione più raffinata dei già menzionati Calibro 35, polverosa pepita passata al setaccio di Karl Hector & The Malcouns (parentesi: che momenti mi regalò, undici anni fa, Sahara Swing); c’è da perdersi, poi, nei sei minuti di pura eleganza di Paloma, tutta cori estatici e crepitare di puntine di giradischi. Per ultimo – lato D, ormai – un altro terzetto di brani da urlo, forse i meno diretti del lotto: una Quantum Of The Air da colonna sonora anni Sessanta (quanto ci scommettete che questa cosa Aziz Ansari l’avrebbe utilizzata per la seconda stagione di Master Of None?); un’ansiosa As Tu Été À Tahiti?, solo strumentale, che si avvale dell’apparato iconografico gentilmente offerto dallo street artist Ericailcane; la lenta processione finale Mono no aware (物の哀れ) – “concetto estetico giapponese che esprime una forte partecipazione emotiva nei confronti della bellezza della natura e della vita umana, con una conseguente sensazione nostalgica legata al suo incessante mutamento”, apprendo da Wikipedia – che sembra raccogliere per strada partecipanti e strumenti man mano che procede (una meraviglia, quel suono di basso).
Finisce così, in un miraggio, uno dei dischi più interessanti ascoltati ultimamente, evaporando in lontananza in un sole accecante. Una fonte cui tornerà spesso voglia di abbeverarsi, un mistero che sembra conservarsi intatto anche dopo mille ascolti.
Titolo | Racines
Artista | C’mon Tigre
Durata | 44’
Etichetta | BDC