Music is my radar | Cinque album da regalare a Natale
Ognuno di noi si è arrangiato come ha potuto, durante questo anno terribile, per garantirsi una qualche sorta di equilibrio nonostante tutto, intorno, promettesse di dissolversi – ogni certezza di contatto sociale, ogni ritmo lavorativo ragionevole, ogni passione o semplice consuetudine.
Di come sia stato il mio ventiventi e come abbia provato a far fruttare il mio percorso di psicoterapia – quale stress test migliore avrei potuto desiderare? – vi racconterò fra qualche settimana, per il consueto tramite di album che mi hanno aiutato a ragionarci in tempo reale. Qui invece vi dico di una delle piccole boe arancioni cui mi sono aggrappato per tenere il conto dei giorni che passavano immerso nella foschia di un mare in cui, come chiunque, non avevo riferimenti o indicazioni su dove fosse la riva.
Cinema e musica, come sempre, mi hanno fatto da stelle polari.
Sul mio profilo Facebook, dal 28 marzo, ho iniziato a postare frame memorabili di grandi film, spesso visti a distanza con amici: mi sono interrotto alla fine del primo lockdown e ho ripreso all’inizio del secondo, contando di arrivare a cento proprio alla vigilia di Natale. Una piccola cosa, immagino, a guardarla da fuori: ma a me ha davvero permesso di orientarmi, di darmi un obiettivo raggiungibile ogni sera e mettere un piede davanti all’altro, con calma.
Il 10 aprile ho pubblicato la copertina di This Is The Sea dei Waterboys, primo di una serie di album per me life-changing. Dovevano essere venti, solo copertina, titolo e autore; sono diventati quarantacinque, come i giri degli amati singoli in vinile, e con caption sempre più lunghe. Non potevo certo metterli qui tutti, mi prendo già fin troppo spazio su queste pagine cui voglio così bene: però ne ho fatti scegliere cinque a Francesca, perché sapevo che lì dentro si nascondevano cose con cui qualcuno oltre a me avrebbe potuto relazionarsi.
E quindi: ecco cinque dischi che mi hanno segnato e che potreste considerare di regalare a Natale; li metto qui di seguito, nell’ordine in cui li ho conosciuti, e più o meno coprono vent’anni di vita. Li ascolterei con voi, se foste qui, proprio adesso: proviamo a immaginare che sia così, io voglio crederci.
VASCO ROSSI – COLPA D’ALFREDO (1980)
Solo negli ultimi anni ho imparato a guardare con tenerezza alla vergogna con cui, intorno ai diciotto, mi sono liberato di tutti i CD di Vasco Rossi che stavano a prendere polvere sui miei scaffali che, parallelamente e poco alla volta, andavano riempiendosi di indie-rock anglofono di qualunque livello. È buffo, perché lì sopra è finita anche roba decisamente peggiore del peggior Vasco, ma solo dei suoi album ho sentito il bisogno di liberarmi, come se dovessi proprio negare di essere mai stato quella persona.
Ho smesso, sapete? Adesso posso dire: sì, quasi tutto il post-galera è agghiacciante, ma il Signor Rossi del periodo 1978-1983 – cazzo – era geniale, tant’è che se ne ritrovano tracce ovunque. Prendete un brano urlato, storto ed esistenzialista uscito in Italia nel corso dei decenni successivi e difficilmente gli autori vi diranno di non averne sentita l’influenza (citofonare Fine Before You Came, per dire).
E potrei divagare per ore, tirando in ballo Tondelli e concetti di “noia”, “vuoto” e “provincia” – come quei critici musicali che per ammettere di amare un album considerato uncool ci devono infilare riferimenti al punk per nobilitarsi e salvare la faccia. Ma la vera verità è che dischi assurdi come Colpa d’Alfredo appartengono alla ristretta categoria di quelle cose che da ragazzino ti fanno venir voglia di girare con una tamarrissima bandana annodata allo zaino come un segno d’appartenenza.
THE VELVET UNDERGROUND – THE VELVET UNDERGROUND (1969)
Va bene, certo: la banana e l’eroina, Nico e Andy Warhol, l’epica da l’hanno-ascoltato-in-pochi-e-tutti-hanno-formato-una-band, il buco nero di Sister Ray, il noise quindici anni prima del tempo.
Però è l’omonimo dei Velvet Underground del 1969 ad avermi preso il cuore per il modo in cui ha codificato mille stili rock in dieci canzoni inarrivabili. Senza di loro, non si possono proprio immaginare gli occhi lucidi e il vagare post-mortem per il cosmo del terzo Big Star e i mormorii di Michael Stipe sulle chitarre scheletriche di Murmur, così come l’intero lo-fi (da Daniel Johnston e Calvin Johnson all’impianto estetico/narrativo di Juno) senza mettersi a cantare – male, ovviamente – After Hours con Maureen Tucker.
Poi ci sono cose ancora più personali, per me.
King Of The Opera che, tra pensiero ed espressione, infila in Pop Skull un frammento di Some Kinda Love; gli Yo La Tengo notturni e delicati di And Then Nothing Turned Itself Inside-Out e dei due magici cover album Fakebook e Stuff Like That There. Più in alto, da qualche parte in un paradiso ancora più oppiaceo, intimo, doloroso: Mark Linkous che in Maria’s Little Elbows si prende sulle spalle tutto il dolore della disforia di genere di Candy Says per nascondere – la voce effettata, le ragnatele sulle palpebre – la propria fatica di esistere come corpo, quell’esatto corpo.
Ecco, sì: alla fine a farmi preferire questo a quegli altri monumenti forse è proprio il senso di empatia per cose troppo piccole e indifese per non soccombere che emerge da brani che suonano precisamente come loro.
R.E.M. – GREEN (1988)
Scegliere il disco migliore di Berry, Buck, Mills e Stipe è impresa ardua: nessuna band nella storia è mai stata tanto inattaccabile per tutto l’arco di una carriera, per quanto mi riguarda.
Però il loro primo album major – Green, un folk-rock psichedelico radiofonico e inarrivabile, mai più replicato perché i REM non sono mai stati due volte uguali a se stessi – è quello che scoprii grazie a una guida all’indie americano pubblicata da Rumore nell’estate 2002, insieme a tantissima altra musica incredibile.
Quello che ascoltavo il primo giorno d’università, quando, tornato a casa, dissi a mia madre che proprio non ce l’avrei fatta a laurearmi in matematica e poi cacciai la faccia nel cuscino per la vergogna, mentre sullo stereo quei ritornelli più grandi della vita mi facevano da defibrillatore.
Quello che mi accompagnava nella primavera/estate 2008 verso i primi lavori in giro per piccole biblioteche di paese, cantato a squarciagola dal finestrino dell’auto il pomeriggio presto (geolocalizzazione: Credera, 1.600 abitanti) oppure in bicicletta, al tramonto, tra le maledette zanzare (la strada da Crema a Fiesco, in mezzo ai campi).
“Sono rimasto alzato fino a tardi, solo per sentire la tua voce” è la frase perfetta per riassumere l’opera di una band – l’unica, tra quelle di massa emerse dagli Ottanta in poi, a mostrare così chiaramente questo intento – a cui interessava davvero farsi ascoltare da tutti per dire qualcosa di puro, giusto e bello. E poi tornarsene ad Athens a guidare un trattore.
FUGAZI – IN ON THE KILL TAKER (1993)
Non sopporto l’ironia meta di questi tempi, non la sopporto proprio.
Azzera tutto, rende ogni causa ridicola, porta ogni discussione fuori tema, riduce tutto a uno stramaledetto meme. Forse è un’autodifesa rispetto a un senso di inadeguatezza e impermanenza, non lo so; ma quelle sensazioni le provo pure io ogni giorno e questo non mi spinge a nullificare ogni cosa – e ogni persona, di conseguenza – con una cinica scrollata di spalle. È improduttiva, violenta, pure fascista.
L’opposizione a tutto questo me l’ha insegnata prima di tutto mia madre (una che sta all’opposizione e fieramente si interessa a tutti da una vita), ma poi son venuti tanti piccoli maestri e Ian MacKaye, fra i musicisti, è stato il più importante di tutti.
In On The Kill Taker è il primo Fugazi che abbia ascoltato, e non l’ho mai potuto scordare.
Perché oltre a vantare un suono assassino e in-your-face come nessun altro dei dischi della band (le chitarre di Great Cop, le mazzate emo di Public Witness Program o Smallpox Champion) e pure permettendosi qua e là un qualche tipo di dolcezza (Sweet And Low, Last Chance For A Slow Dance), si apre con lo schianto di Facet Squared e una delle più forti dichiarazioni di identità che io abbia mai ascoltato in un disco.
La metto qui, epigrafe perfetta che vorrei sulla mia lapide, dopo averla portata su una toppa per tutta la vita: “irony is the refuge of the educated / always complaining but they never quit / cool’s eternal but it’s always dated”
KENDRICK LAMAR – UNTITLED UNMASTERED. (2016)
I remember I was conflicted.
A luglio 2016 ho trovato una nuova casa a Bologna e sono tornato a vivere qui per la seconda volta, dopo un primo tentativo di un annetto in un monolocale in cui proprio non stavo bene – non potevi nemmeno aprirci del tutto le finestre, in quell’appartamento del cazzo, senza che sbattessero contro qualcosa e restassero socchiuse.
Invece qui c’era – e c’è ancora – un sacco di luce, con un bel finestrone che è una delle cose che mi hanno salvato in queste quarantene: ho respirato una libertà tutta nuova, in questa casa, e le sarò per sempre affezionato, anche quando sarà il momento di andarmene altrove.
Ecco: se c’è una canzone che associo alla prima volta che ho fatto entrare un po’ più d’aria e luce e avuto per davvero una vita adulta, quella canzone è Harmony degli Avalanches (vi sfido a trovare qualcosa di più aereo di quell’eterna presabbene IDM). Se c’è invece un disco che ha infastidito impunemente il mio nuovo vicinato quell’estate, quel disco è untitled unmastered.
So che può sembrare la classica scelta da bastiancontrari fighetti, ma, esattamente come Amnesiac dei Radiohead mi aveva permesso quindici anni prima di comprendere a posteriori la grandezza di Kid A, così questa raccolta di outtake di Kendrick Lamar mi ha permesso di afferrare finalmente quello che quasi qualunque amico sosteneva: che To Pimp A Butterfly fosse il disco più importante del decennio.
Ma quello che non avevo capito in diretta di quel mastodonte me l’hanno spiegato queste otto tracce a base di rap, funkadelia e jazz che scorrono per trentaquattro minuti come un unico flusso sonoro dopato – lo stesso uso e abuso di sostanze psicotrope alla base delle narrazioni oblique di Atlanta di Donald Glover, un modo per sopportare e convivere in qualche modo con quell’esperienza di massa chiamata black trauma.
untitled unmastered è un disco breve, brusco, politico, che ha tutto il fascino che può avere solo un artista al picco della propria forza espressiva.