Carola come Antigone
Sofocle, 2500 anni dopo
Sale in versi è una rubrica di poesia.
Ma io oggi non ci metto dentro una poesia. Non ci metto dentro rime, versi, aeree astrazioni.
Ci metto dentro un testo di teatro, una previsione normativa, un grido di rabbia.
L’Antigone di Sofocle ha quasi 2500 anni. Prendeva corpo e voce e sentimento eterno ad Atene, nel 442 a.C., testo pedagogico che insegnasse all’uditorio, col teatro, l’aspro conflitto fra la norma positiva e il sentire intimo dell’uomo come tale. La legge morale, come avrebbero discettato nei millenni a venire filosofi, giuristi e laureandi in giurisprudenza.
Antigone, che è donna e figlia e dunque vale poco o niente, si innalza a sfidare l’imposta legge della polis, la legge dello zio regale, Creonte, per portare conforto e sepoltura a suo fratello, Polinice. Polinice – povero cadavere, orfano di un pugno di terra. Polinice che muore da nemico, contrario alle leggi di Tebe, avversario e carnefice in egual modo a suo fratello, Eteocle, che invece gode di una tomba da re.
L’antitesi fra Antigone e Creonte scuote i cardini della giustizia: dove sta, la hybris? In chi contravviene alle leggi dello Stato? O in chi contravviene all’indefessa legge dell’animo dell’uomo?
Sofocle fa pura poesia di questo scontro:
CREONTE :
Hai potuto spezzare norme mie?
ANTIGONE :
Ah sì. Quest’ordine non l’ha gridato Zeus, a me; né fu Giustizia, che dimora insieme coi Dèmoni d’Averno, onde altre leggi furono imposte agli uomini. Ero convinta: gli ordini che tu gridi non hanno tanto forza da far violare ad un mortale le leggi dei Celesti, non scritte, ed incrollabili. Leggi non d’un’ora, non d’un giorno fa. Vivono esse eterne; nessuno sa radice della loro luce. E in nome d’esse non volevo colpe, io, nel tribunale degli dèi, intimidita da ragioni umane.
*
C’è una colpevolezza, in capo a ciascuno, di fondo: è colpevole Polinice, nei confronti della città. E’ colpevole Antigone, che del comandamento morale fa il suo scudo, e in nome di leggi non scritte ed eterne contravviene alla legge dello Stato e seppellisce il fratello. Lei che cede spazio alla pietas verso i morti e abbandona la propria libertà. E’ colpevole Creonte, che forte e ostinato nel principio giuridico ritiene che nessuna norma morale possa elevarsi al di sopra della legge propria, che per puro caso è legge dello Stato.
Hanno tutti ragione: Antigone in quanto sorella, Creonte in quanto sovrano.
Hanno tutti torto: Antigone perché di fatto trasgredisce la legge, Creonte perché di fatto offende la pietà.
Nel 2019, a spasso per un Mediterraneo caldissimo, Carola sulla sua nave colma di disperati senza promessa d’approdo si fa tamburo ed eco della voce di Antigone: Carola, che onora la legge del mare e contravviene al decreto legge dello stato italiano, e porta in salvo 42 stremati Polinice.
Carola, ti immagino scossa come la figlia d’Edipo, da un comandamento morale ancora più impellente, ancora più assoluto: quelle stesse leggi non scritte che ti impongono di difendere la vita che è, l’essere umano fin quando è tale, fin quando ha questa cosa così preziosa che gonfia di vita i polmoni. Prevenire lo strazio di un’Antigone al seppellimento di un cadavere.
Carola, ti so colpevole per la norma dello stato- com’era colpevole lei. E ti so nella grazia della giustizia, proprio come lei.
E qui tutti ti stiamo a guardare imbambolati, tu preda fiera e immota di questo giochino da percentuale di consensi, di qualche tremolio della poltrona, dei flutti indomiti di un mare che è già un enorme ossario.
Carola, se Dike non fosse una divinità antica…
se noi non fossimo così diméntichi, così preda della pigrizia e di una tastiera, tutto questo argomentare di porti aperti e porti chiusi e capitoni e sbruffoncelle, tutto questo disarmante ridicolo, sparirebbe nel silenzio.
Lascerebbe spazio alla voce limpida e potente dell’umano raziocinio, poesia più forte di qualsiasi terzina:
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
(Art. 54, codice penale)