The Artist – Cappello a cilindro

The Artist – Cappello a cilindro

Proporre, nel 2012, al pubblico occidentale coprofago, un film in bianco e nero e muto è una scommessa contro tutti e tutto. Un tale progetto si muove su strade scoscese, da cui è facile scivolare: da un lato, il rischio di cadere nel didascalismo della rievocazione, capace di soddisfare solo il pubblico degli eletti dei cineforum; dall’altro, il pericolo altrettanto vivo di sminuire, o totalmente travisare, il senso, anche storico, del cinema muto. Il regista Michel Hazanavicius sembra avere ben in testa queste problematiche quando affronta la sua scommessa, dirigendo The Artist, e la vince, forte forse di una certa incoscienza, arrivando fino agli Oscar e sbancandoli (più che una scommessa, un miracolo!), mantenendosi sempre in bilico fra la rievocazione e una strizzata d’occhio sorniona al pubblico.

The Artist è composto come un film classico, americano, e muto, ma diretto modernamente. È capace di soddisfare il pubblico acerbo che non conosce una maniera di fare cinema ormai scomparsa da circa 80 anni, ma anche coloro che hanno studiato e amato il cinema ai suoi esordi, quando non era altro che un divertissement per ricchi.

Innanzitutto è didascalico, vuole ripercorrere la storia del cinema muto americano, ma solo fra le righe, solo per chi vuole e sa cogliere i riferimenti. La storia, infatti, narra di George Valentin, il cui nome ricorda il divo Rodolfo Valentino, mentre l’aspetto richiama Douglas Fairbanks, divo carismatico del cinema muto, acclamato dalle folle. Gli anni ’20, ultimo decennio pieno della produzione silente, videro infatti la nascita delle primissime grandi personalità del cinema (le moderne stelle hollywoodiane), di cui Valentino e Fairbanks sono due esempi. Valentin passa la vita a interpretare film avventurosi (si vedono scene che ricordano Il ladro di Bagdad o Il segno di Zorro, dello stesso Fairbanks), vive con un cane che recita con lui (forse la vera rivelazione del film) e con una moglie con la quale non parla mai. La sua vita cambia drasticamente quando il cinema viene investito con clamore (è il caso di dirlo) dal sonoro. Da buon divo del cinema muto, abituato a incantare con espressioni e sopraccigli alzati, Valentin rifiuta categoricamente il cambiamento, finendo presto dimenticato e senza lavoro. Parallelamente, George osserva da lontano l’ascesa di una giovane diva, Peppy Miller, che lui stesso ha contribuito non poco a creare e che lo salverà dal baratro dell’alcolismo, fino alla redenzione.

La trama è semplice, il modello americano d’altri tempi è chiaro, e per questo funziona. Piace al pubblico, ha il sapore di una commedia agrodolce, ma non è tutto. La vita di molti divi del cinema muto venne sconvolta, così come quella di Valentin. Il già citato Fairbanks, il meno noto John Gilbert (compagno di Greta Garbo), ma sopra tutti il grande comico Buster Keaton, che col sonoro cadde nell’alcolismo e nella depressione e, praticamente, non recitò più, salvo qualche cameo fulminante, sono solo alcuni esempi. Sempre al mito della commedia, al “più muto degli attori muti, sul cui viso anche un sorriso sarebbe parso dissonate come un grido” (la diatriba proposta in The Dreamers di Bertolucci sulla superiorità sua o di Chaplin nel mondo del comico, per me si risolve a suo favore) rimandano i due sogni inquietanti di cui Valentin è protagonista, ed in particolare il rimando è a Sherlock Jr., che verrà omaggiato anche in La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen. Dall’altro lato, vediamo la nascita di una generazione di giovani stelle del cinema americano, che rimarranno in voga per quasi 50 anni, adorate e venerate, come nuove divinità. Sono Joan Crawford, Greta Garbo e Katharine Hepburn, figlie di un mondo nuovo, di un’alba che fa da contraltare al “viale del tramonto” di tante personalità maschili. La trama, dunque, benché adatta a catturare lo spettatore (qualunque spettatore), non perde di vista la storia del cinema, anzi la sottolinea, pur mantenendo la sua presa sul pubblico.

La recitazione e la regia seguono lo stile del film muto americano, senza rendere, però, la recitazione caricaturale, ma insegnando ad apprezzare le espressioni accentuate del viso, come nei ripetuti ciak della sala da ballo, e le risate caricate più del dovuto, fino a farci sentire un suono che non c’è se non nella nostra mente. L’importanza del gesto era centrale in un mondo in cui le parole erano bandite. Il nostro mondo moderno, straripante di parole, ha perso il legame col gesto. Il regista prova a farcelo notare, sempre in maniera dolce, senza strappi: ne è un esempio la scena stupenda di Peppy che si abbraccia da sola con la giacca di George, simulando il braccio di lui. L’insegnamento, dunque, di qualcosa che è passato, ma che riecheggia in tutto un modo di fare cinema moderno, è una delle chiavi centrali del film. Queste scene non pesano, però, e convincono anche i più scettici che il cinema muto può essere valorizzato anche oggi, anche perché intervallate con divertenti gag in cui, spesso, il protagonista è il cagnolino di Valentin.

Il secondo tema portante è la parola parlata, analizzata da un punto di vista meta-cinematografico, che rimanda, nuovamente, a Keaton. Valentin è un attore muto, ma neppure nella vita reale è capace di parlare, se non tramite le didascalie. Non ha voce, appartiene completamente ad un’altra epoca e non riesce ad uscirne. Questa sua caratteristica lo rende emarginato e in grado di stare solo con persone che provengono dal suo mondo, che ormai non c’è più. Solo Peppy, nata in quel passato, ma capace di cavalcare il presente, può salvarlo dall’inesorabile viale del tramonto, attraverso il collante fra i due periodi della storia del cinema: la musica (che nei film muti si era soliti interpretare dal vivo, nei teatri). La storia del cinema americano a cavallo fra i due periodi giunge a compimento: con l’avvento del sonoro, Hollywood presto si specializza in musical, interpretati magistralmente dal tiptap di Ginger Rogers e Fred Astaire. Peppy traghetta George nel nuovo mondo, così come Hazanavicius traghetta noi attraverso dieci anni di storia che hanno cambiato il cinema. Il tocco di genio che rende un buon film un capolavoro ci viene mostrato nell’ultimissima scena, che a molti sarà sfuggita, perché girata con leggerezza e posta in posizione tale da non spaventare lo spettatore medio. Dopo il ballo frenetico fra i due protagonisti e i loro ansimi, che indicano che il passaggio al nuovo è avvenuto, il produttore chiede a George di girare un’altra volta la scena e lui risponde: «With pSeasure». La metanarrazione è portata furbescamente alle sue estreme conseguenze: Valentin sta imparando a vivere in un mondo “sonoro”, sta imparando a parlare, dunque commette ancora qualche errore.

Se il film è riuscito a far incuriosire una persona su cento, facendogli cercare qualche vecchio film, facendogli esplorare il mondo del muto, allora ha raggiunto un obiettivo strepitoso. Se non è così, rimane un grande film anche per gli scettici sul genere. E come diceva Keaton nel suo cameo in Luci della ribalta «se qualcun altro dice “come ai bei tempi andati”, mi butto dalla finestra!».

Alessandro Pigoni

 

Titolo: The Artist
Regia: Michel Hazanavicius
Interpreti: Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman
Durata: 100 minuti
Anno: 2011

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2 COMMENTS

  1. […] a sentire tutto e a non ascoltare nulla.Ed è questa la forma mentis a cui va incontro un film come The Artist, impavida pellicola muta datata 2012 che si traduce in un tributo al cinema silente che regnava […]

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