Canzoni della Cupa | Yin e Yang secondo un irpino
Gli album di Vinicio Capossela, quantomeno i post-2000, hanno una struttura abbastanza simile tra loro: la prima metà è ubriaca, estroversa, psichedelica; l’altra invece intima, ovattata e fondamentalmente disturbante. Sono due metà che si fondono tra loro, l’una nasce dall’altra.
Come in una notte di festa.
C’è un attimo d’esitazione iniziale, necessaria per prendere confidenza con gli invitati e lasciare che il vino faccia il suo corso, poi si accelera e si precipita in un vortice orgiastico di pagana collettività, si viene trasportati dal ritmo e non ci si rende conto di come il tempo passi fino a quando la musica non smette. A quel punto la festa è finita, siamo rimasti soli e tutti i dubbi, i demoni e gli incubi che ci eravamo illusi d’aver scacciato si ripresentano per farci cadere in quel piacevole malessere, la malinconica solitudine che solo chi ha provato l’esperienza di essere l’unico rimasto sveglio quando gli altri sono addormentati può conoscere.
Una notte di festa dicevo, certo. Ma non è forse lo stesso ciclo della vita di ognuno di noi?
Canzoni della Cupa riprende questa commissione mistica tra il sacro e il sacrilego. La prima metà, Polvere, ci porta nella terra riarsa, dove i cuccioli degli sciacalli giocano con le ossa d’asino. La musica prende la forma di una festa paesana, un esorcismo, una vendemmia. È qui che si trovano gli inni alla femminilità, all’amore carnale come in L’acqua chiara alla fontana – palese finale alternativo di Carlo Martello di De André nonché una rivalsa per tutti noi galantuomini dal cuore d’oro – fino addirittura alla celebrazione per un piatto di maccheroni o dei semplici ritornelli ripetuti all’infinito come in Rapatatumpa. Sono 16 canzoni – quasi tutte riprese dalla tradizione folk italiana, dai tarantolati alle mondine – frenetiche, più o meno euforiche, viscerali. Non ti danno il tempo di pensare a quello che accadrà e tu vuoi solo lanciarti tra la folla.
Poi però finisce il Disco 1.
La bestia nel grano è letteralmente il giro di boa dell’album e anzi, questo giro avviene durante la canzone stessa: partita come un canto di lavoro nostrano che invece che dai campi di cotone prende vita dall’oro del frumento, ad un tratto cambia. Arriva il pomeriggio e con esso la fatica, il ritmo rallenta e nel buio del mezzogiorno ci uniamo al mondo delle ombre. Vinicio lo chiama “il mondo di sotto”, e mi piace pensare che quelli di Stranger Things abbiano sentito questo album prima di creare il “sottosopra”.
La seconda metà, Ombra, è un tour onirico delle tenebre. È la strada che dobbiamo fare per tornare a casa quando lasciamo la festa. Il sole è oramai calato, siamo soli nel bosco e i sogni hanno preso il controllo. È il regno dei lupi e delle civette, qui le contadine cedono il passo alle streghe mentre le donne che si sono divertite alla festa abortiscono in segreto, e se per un momento pare che siamo tornati a quella festa – in questo caso un matrimonio – poi ci rendiamo conto che per ogni famiglia che si crea ce n’è una che si frantuma.
La prima canzone dell’album, Femmine, fu incisa nel 2003 e poi il tutto venne lasciato a sedimentare e a germogliare, andando ogni tanto a rimestare e a potare laddove fosse stato necessario. Canzoni della Cupa è frutto quindi di una stagionatura di 13 anni, ma è anche il punto di arrivo di un viaggio tematico/musicale per il Mediterraneo iniziato nel 2006 con Ovunque proteggi e continuato poi con Marinai, profeti e balene e Rebetiko Gymnastas. Come Ulisse, dopo esattamente 10 anni dalla conquista di Troia, Capossela ritorna infine a casa: il Sannio (l’Irpinia per la precisione), quella regione ispida e brulla che costituisce la spina dorsale del meridione d’Italia.
Non ci resta che aspettare che Ulisse Vinicio decida di riprendere il mare. E l’ultima canzone, Il treno, ci dà proprio l’idea che quel viaggio sia già iniziato.
Album | Canzoni della Cupa
Artista | Vinicio Capossela
Etichetta | La Cùpa , Warner Music Italy
Anno | 2016
Durata | 120:00