Un’epica a misura d’uomo – intervista a Roberto Camurri

Un’epica a misura d’uomo – intervista a Roberto Camurri

Se vi dico “Fabbrico”, a cosa pensate?

Presumibilmente ad accedere a Google per superare l’iniziale smarrimento.
Scoprirete che si tratta di un paesino localizzato da qualche parte in provincia di Reggio Emilia, con un castello e una chiesa di interesse culturale e meno di diecimila anime ad abitarlo.

Il classico posto “a misura d’uomo”, concetto abbastanza generico da essere riciclabile per ogni non-metropoli, senza però che l’effettiva misura di quest’uomo sia mai esplicitata. Ma per Fabbrico è diverso, poiché questa misura trova definizione nelle parole e nelle storie di Roberto Camurri, che titola appunto “A misura d’uomo” il suo romanzo d’esordio con NN Editore.
In esso, Camurri recupera l’epica di provincia restituendola al lettore in forma di romanzo multi-prospettico, dove i personaggi si incastrano come piani in uno spazio geometrico che è poi quello della cittadina emiliana.

In redazione c’è chi lo ha definito un romanzo “polveroso”, aggettivo adeguatissimo a vicende che si tende ingiustamente a lasciare in un angolo in attesa che il tempo, la trascuratezza o la dimenticanza vi si depositino, creando atmosfere che non cercano la letterarietà a tutti i costi, bensì un’umanità tenera e brutale. Io aggiungerei “primitivo”, dello stesso primitivismo ricercato dall’arte novecentesca in quanto vicino all’essenziale e all’archetipico, che rende i personaggi di Camurri simili a statuette tribali: ruvidi, diretti, corporei.

Insomma, a noi di SALT, “A misura d’uomo” è piaciuto, e non potevamo perdere l’occasione della presentazione del romanzo presso la Confraternita dell’Uva – attivissimo caffè letterario nel centro di Bologna – per scambiare quattro chiacchiere con l’autore.

Di lui conosciamo i modelli letterari: la letteratura americana di confine e western, alcuni autori emiliani; ma cosa legge Roberto Camurri? Qual è il suo podio personale?

Roberto Camurri: Ti rispondo da lettore coi primi tre libri che, una volta finiti mi hanno fatto saltare sulla sedia:
– Lo Scheletro che Balla, Jeffery Deaver
– Il Potere del Cane, Don Winslow
– La Strada, Cormac McCarthy 
– (Poi ci aggiungo Tondelli, tutto, che è per me un’ispirazione costante)

E il Camurri scrittore invece, che lettore cerca? C’è un destinatario ideale per “A misura d’uomo”?

Mentre scrivevo “A misura d’uomo” non avevo in mente chi potesse leggerlo, volevo solo mettermi al servizio delle storie, nascondere me stesso in un angolo e descrivere ciò che succedeva, concentrarmi sui protagonisti; quando ho iniziato a fare quello ho trovato la mia dimensione, le emozioni che volevo raccontare.

Emozioni che attingono direttamente dalla biografia dell’autore e dal suo rapporto con il paese natale, Fabbrico, che diviene giocoforza lo spazio geografico di “A misura d’uomo”.

Fabbrico è stata una scelta obbligata, volevo muovermi in un territorio che amavo e da cui sono fuggito, descriverne le contraddizioni, i silenzi, gli stessi dei rapporti con cui sono cresciuto e che mi hanno influenzato.

E già in queste parole di Camurri, scorgiamo il leitmotiv del romanzo, il rapporto conflittuale con la dimensione provinciale: desiderio di affrancarsene ma incapacità di farlo del tutto, quasi che di questa provincia non ci si possa “liberare”.

Il rapporto conflittuale è un po’ alla base del libro. Ma non è un conflitto in negativo, una contrapposizione. La voglia di scappare dalla provincia e poi tornare e restare o scappare di nuovo, è qualcosa che avviene sullo stesso piano, nello stesso momento. Così come dentro ai personaggi, nello stesso momento, convivono slanci e silenzi, amore e amicizia, comportamenti contraddittori che li rendono, a mio avviso, esseri umani. Perciò, non credo ci si possa liberare di qualcosa che ci rende chi siamo, credo si possa solamente accettarla.

A questa riflessione fa da cornice una forma singolare, forse divisiva, ma che si distingue per originalità ed efficacia nella resa dei personaggi del romanzo, “sbozzati” attraverso il susseguirsi martellante delle azioni (e mancate azioni) grandi e piccole da loro compiute. La rinuncia al discorso diretto introdotto da virgolette, altro tratto stilistico saliente, rafforza ulteriormente questa sensazione.

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La descrizione psicologica “formale” è sostanzialmente assente, quasi a suggerire la rinuncia a spiegare la psiche dei personaggi lasciando che essa si snodi attraverso l’azione. In questo senso l’opera è un “anti-romanzo psicologico”, ma ciò non va a discapito dell’empatia tra lettore e personaggio; ne nasce un’empatia “di pancia”, istintiva in quanto non indotta dal filtro psicologico di chi scrive.

Ho deciso che non avrei messo nessun tipo di giudizio nel descrivere i protagonisti. Ho cercato di farli “parlare” attraverso i loro gesti, il loro modo di comportarsi davanti alle difficoltà, agli stimoli che la vita metteva loro davanti. È anche per questo motivo che ho scelto di inserire i dialoghi nel flusso della narrazione, per non spezzare il ritmo, per renderli parte integrante di ciò che succedeva, per formare un nucleo “vivo” fuso con il paesaggio, le emozioni, Fabbrico. Tutto ciò che è nel libro, in qualche modo, mi serviva per comunicare l’emozione che avevo in mente, per portare dentro il lettore, coinvolgerlo senza utilizzare parole che fossero la mia interpretazione.

Ma non c’è il che costruire personaggi di pura azione li brutalizzi, facendoli risultare creature più istintive che di pensiero, primitive in un certo senso?

È stata una scelta dettata anche dal fatto che volevo comunicare la loro difficoltà nell’elaborare attraverso le parole le emozioni che stavano provando. La diseducazione ai sentimenti che li contraddistingue quasi tutti. Volevo che al lettore passasse il loro smarrimento e il loro essere travolti da qualcosa di troppo grande che non riescono a capire; in quel senso, sì, possiamo parlare di istinto, di reazioni di pancia più che di testa.

E, da lettore, posso confermare che lo smarrimento e l’incapacità di elaborare gli eventi si percepiscono tangibilmente e, anzi, si affiancano al non essere “letterario a tutti i costi” cui già si accennava creando un flusso narrativo intimista, una provincia dall’interno che si lascia apprezzare.

Ma se invece volessimo apprezzare la Fabbrico reale, magari trascorrendoci una giornata a caccia delle atmosfere di “A misura d’uomo”, dove si va?

Consiglierei di perdersi lungo le strade basse e sterrate che si snodano lungo la campagna tutto attorno, fermarsi a mangiare alla Trattoria Dell’Acero che è il ristorante di Buio (un capitolo del romanzo, ndr), fare un giro dei bar che, tutti insieme, hanno ispirato quello della Bice, poi, certo, consiglierei a tutti di venire il 27 febbraio, a camminare in corteo nel giorno della commemorazione della battaglia che ha liberato il paese dall’occupazione fascista.

Ebbene, sappiamo anche dove andare e cosa fare, oltre naturalmente a cosa leggere!

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