Cages | L’arte e l’essenza delle cose secondo Dave McKean
Quando qualche anno fa ho notato per la prima volta Cages in libreria, ero già da tempo amante dell’arte di Dave McKean.
Conoscevo il disegnatore (titolo forse un po’ limitativo per lui) in particolare per quanto aveva prodotto con Neil Gaiman su Sandman, oltre che per il graficamente splendido Batman – Arkham Asylum, giusto per citarne due.
Vedevo questo grosso volume completamente nero, con al centro un gatto antropomorfo color ocra, ma non avevo grande idea di cosa aspettarmi da un lavoro scritto e disegnato interamente da McKean.
La curiosità era tanta ed è stata fortunatamente soddisfatta.
Le prime pagine del lavoro sono spiazzanti, contengono racconti cosmogonici rarefatti sullo sfondo di disegni evocativi, il cui centro narrativo è la creazione come opera di Dio e come opera dell’uomo.
In realtà i racconti, ripresi nel corso del racconto sotto forma di citazioni, sono un antipasto per il piatto principale, che si rivela essere un meta-fumetto sull’arte, sulla creazione e sui limiti – o gabbie, appunto – che la costringono.
La scena si apre con un gatto nero, che si aggira sulle scale di emergenza di una palazzina osservando con una certa noncuranza gli inquilini all’interno. Ciò che il gatto osserva è distorto, nebuloso e non collocabile nel tempo, come se il mondo all’interno fosse separato da ciò che lo circonda esternamente.
In questa palazzina arriva Leo Sabarsky, pittore in crisi creativa, la cui storia si intreccia con quella degli altri inquilini del palazzo, come lo scrittore Jonathan Rush, il musicista Angel e Karen.
Sin dalle prime pagine salta agli occhi la particolare caratterizzazione dei personaggi.
Leo, dicevamo, è consapevolmente e disperatamente alle prese con la sua gabbia interiore che ne inibisce la vena artistica, così come Jonathan, confinato con la moglie nel suo appartamento – la gabbia esteriore – che funge anche da rifugio dal mondo esterno, rabbiosamente scatenato nei suoi confronti per un libro altrettanto rabbioso ed oltraggioso agli occhi del suo pubblico. Al di sopra di questi personaggi c’è Angel, musicista afroamericano e rappresentazione umana dell’arte, oltre che deus ex machina in grado di influenzare in modo determinante il percorso di Leo e Jonathan. E’ lui, ad esempio, a favorire la funzione catalizzatrice di Karen, musa ispiratrice artistica e non di Leo, dal ruolo determinante nel superamento delle rispettive gabbie del pittore e dello scrittore, elemento narrativo cardine di questa graphic novel.
A contrastare questo processo catartico sono due soggetti negativi e misteriosi, semplicisticamente identificati come critici d’arte, guardiani della gabbia di Rush con il primario scopo di inaridirlo artisticamente ed emotivamente, derubandolo di ciò che ama.
E ci sarebbe anche da dire sul gatto nero, in secondo piano ma in realtà basilare, sul quale preferisco non rovinare eventuali sorprese.
Alla lucida consapevolezza di Leo, si contrappongono le stramberie dei comprimari, persone “normali” ma con tratti volutamente grotteschi a sottolineare la loro inconsapevolezza: dall’omino in cerca del suo posto nello spazio alla sig.ra “Cosa”, portinaia della palazzina, passando per il proprietario della galleria d’arte, muto ma caoticamente capace di comunicare con collage di bigliettini, senza dimenticare l’angosciosa e detestabile sig.ra Featherskill ancora in attesa del ritorno del marito misteriosamente scomparso cinque anni prima.
Ma la storia di Cages è in realtà un esile scheletro che McKean usa per mettere in discussione il senso delle cose ed il ruolo ed il significato dell’arte. Più di una volta, nel corso di questa opera decisamente poco lineare, l’autore fa ricorso a momenti onirici o allegorici per sottolineare le domande che i suoi personaggi si pongono mentre zompettano da un angolo all’altro della loro gabbia.
Per fare questo, McKean ricorre a tutte le sue tecniche artistiche visive. Se la linea narrativa sfrutta tavole con disegni ad inchiostro in bianco e nero, apparentemente minimali ma notevolmente espressivi, l’autore rompe il ritmo del racconto per inserire momenti riflessivi ed astratti facendo ricorso ad esempio ad acquerelli con colori accesi, fotografia e xilografia. L’espediente è riuscito e denota i diversi piani in cui l’autore si sta spostando. Non che, per il resto, l’opera sia visivamente banale. Il tratto non è “omogeneo”, si arricchisce ed impoverisce di linee e dettagli a seconda dell’intensità narrativa del momento. Splendido esempio è quello del primo incontro di Leo e Karen, in cui nel corso del dialogo e tra i fumi del vino, le figure diventano sempre più stilizzate mentre iniziano a danzare sullo sfondo di una vignetta bianca, per poi ridiventare lentamente normali con il ritorno alla realtà.
E’ difficile scrivere di Cages, ho dovuto rileggerlo tante volte in momenti storici diversi per capire cosa mi avesse trasmesso.
E’ difficile perché è un’opera densa e non lineare, in cui anche linee di dialogo apparentemente poco significative hanno un peso.
E’ difficile perché la carne al fuoco in termini di riflessione è tanta e gli argomenti trattati impegnativi.
E’ difficile perché riflettere e farsi domande su questi temi è faticoso e, per quanta positività possa comportare questo processo, la catarsi farà sempre male.
E questo ce lo dice Angel:
Ma così è troppo facile. […] E’ facile restare dove siete. Fare radici. Vegetare, come una patata. E’ facile perché tutta l’avidità, l’ignoranza ed il diniego che ci sono al mondo sono vecchi quanto la prima bugia. E’ molto più difficile, dopo aver udito sfregare il fiammifero, dopo esservi riscaldati al cospetto dell’abbagliante fiamma, fare un passo avanti e illuminare un altro pezzettino dell’oscurità che vi circonda.
E’ difficile perché bisogna accettare che, a reggere la candela, ci si brucia la mano con la cera.
E, in fin dei conti, il dolore è parte del processo di rivelazione. E questa è la verità.
Amen.
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Titolo | Cages
Autore | Dave McKean
Editore | Magic Press
Anno | 2012