Burial | Da qualche parte, nella notte
Gran parte del fascino della migliore musica elettronica e prevalentemente strumentale – o, almeno, quella in cui gli inserti vocali tendono a convogliare un mood piuttosto che a determinarlo attraverso liriche ben definite – risiede nella capacità dei suoi autori di trovare titoli in grado di anticiparne umori e sonorità. In questo, William Bevan è sempre stato un maestro, sin dalla scelta del moniker Burial, dietro al quale si è nascosto per rilasciare musica in totale anonimato a partire dalla metà degli anni Zero.
Di lui, prima di ascoltarlo, non si sapeva nulla che non stesse nelle cartelle stampa Hyperdub: “una South London sommersa del futuro prossimo: non si capisce se il crepitio provenga dalle scariche brucianti di una radio pirata o dalla pioggia tropicale della città sommersa che si vede al di là della finestra”. Simon Reynolds tendeva invece ad associare il nome d’arte Burial agli scontri di soundsystem dell’epoca rave, al classico jungle di Leviticus e alle statue del cimitero monumentale di Staglieno fotografate per la copertina di Closer dei Joy Division. Dettaglio che ancora incrementava il potere evocativo: il leggendario produttore della band di Ian Curtis, Martin Hannett, alla fine degli anni Settanta si aggirava per le zone più desolate di Manchester ascoltando post-punk sull’autoradio, per vedere se la musica riuscisse a descriverne adeguatamente il degrado; nel sud di Londra, Burial faceva la stessa cosa con le proprie canzoni.
Poi c’erano titoli come Night Bus, Raver, Endorphin o Archangel che, da soli, sapevano collocare quei pezzi in coordinate emotive, sociali e geografiche ben precise: il suono di una notte persa a girare per Londra sotto la pioggia, il cappuccio in testa e i pugni stretti nelle tasche della felpa, ricordando quello che poteva essere e invece non è stato.
E i suoi unici due album – l’omonimo del 2006, il già citato Untrue dell’anno successivo – traducevano davvero quelle suggestioni in un sound personalissimo, tra dubstep, UK Garage e ambient, fatto di battiti frammentati e irregolari e voci iper-effettate di genere indefinibile e intriso di una nostalgia hauntologica tutta britannica. Una musica che era insieme omaggio alla cultura underground elettronica anni Novanta – irripetibile per qualità e partecipazione comunitaria – e racconto in differita del dolorosissimo risveglio dal sogno rave, uno stanco trascinarsi in una post-vita stordita, avvolta dalla nebbia.
Ma la storia di Bevan è una storia di fantasmi, ed è assolutamente appropriato che a quel periodo di iniziale sovraesposizione mediatica abbia fatto seguito una carriera che si potrebbe definire una quieta dissolvenza. Non fosse che, pure in mancanza di nuovi full-length da ormai un quindicennio, Burial abbia prodotto EP di grandissima qualità e, di tanto in tanto, veri e propri capolavori. Lo testimonia l’impressionante Tunes 2011-2019: due ore e mezza che mostrano l’evoluzione dell’artista verso una forma dai contorni sempre più sfuggenti, singole composizioni di durata chilometrica paragonabili a miniature di album.
Basti come esempio la straordinaria Come Down To Us, preghiera per un’empatia universale dalla melodia strappacuore e nei cui sample si riconoscono alcuni dei termini chiave della produzione del nostro – “lost”, “alone”, “dark”, “angel”, decostruiti dalla voce di una scienziata della NASA -, prima che uno speech di Lana Wachowski arrivi ad aggiungere ulteriore carico emozionale al brano più bello di quello che, a ragione, viene considerato uno dei musicisti più significativi del terzo millennio.
È tornato a farsi sentire spesso, ultimamente, Burial. Prima con una scintillante collaborazione con Thom Yorke e Four Tet, in cui il leader dei Radiohead prestava un impalpabile falsetto a un’elegia suonata dalle ultime persone rimaste sulla Terra; poi con il singolo Chemz/Dolphinz che, a una tirata rave dall’euforia incontenibile e anche un po’ tamarra, accoppiava un inquieto miraggio ambientale. Ora, infine, è la volta di un EP di quasi tre quarti d’ora, la sua release più ampia dai tempi ormai mitologici di Untrue.
Ad Antidawn – rieccolo, il talento di Burial per la scelta di titoli incredibilmente fascinosi – bisogna avvicinarsi con cautela: non c’è beat, qui, che rimandi a un dancefloor; ma non è rimasto più nulla nemmeno di una ambient classicamente intesa. Piuttosto, Bevan preferisce offrire una colonna sonora destrutturata a un presente atomizzato, una sequenza di segnali irrelati tra loro che sono perfetto specchio di un’epoca impossibile da mappare e dunque afferrare nel complesso. Nella notte infinita della città sommersa, le rare melodie che emergono dai collage del nuovo Burial hanno l’aspetto di brevi flash consolatori irradiati da punti indefiniti dello spazio e del tempo.
Strange Neighborhood è forse il momento più alto di un viaggio in cui i passaggi da una traccia all’altra ricordano la segnaletica verticale che marca arbitrariamente l’ingresso in un nuovo territorio. C’è, a tratti, il caratteristico graffio della puntina sul vinile che ha segnato gran parte del sound di Burial, ma si colgono in questi lunghi minuti altre tipologie d’interferenze – un fruscio di vento negli auricolari, per esempio – in cui si intrufolano benevoli spettri di sintetizzatori e altri suoni mai esplicitati, qualcosa che si potrebbe ascoltare passando velocemente davanti a una casa dalle finestre socchiuse e provando a intuire dettagli su chi ci vive.
Che queste astrazioni siano in realtà messaggi in bottiglia e tentativi di costruire ponti lo palesa un passaggio in particolare: attorno al settimo minuto, in Strange Neighborhood si sovrappongono il rimbalzo annoiato di una pallina da ping pong e la sirena di un’ambulanza che echeggia in una strada deserta, prima che due voci tentino un dialogo – la prima, da una stanza illuminata solo da uno schermo sintonizzato su un canale morto, mormora parole su una notte prossima ventura e nessun posto dove andare; la seconda, nella pioggia, sembra una risposta a quella invocazione. Tutto è connesso senza saperlo, sembra azzardare fiduciosamente Burial, e il resto dell’EP torna spesso da queste parti.
In effetti, sezioni come Antidawn o New Love alternano allo stesso modo decostruzione e oasi di chiarezza: nella title-track sono gli ultimi secondi a materializzare una presenza celestiale che lenisce un’iniziale rassegnazione (“nowhere to go”, come sempre), in New Love il soundscape si fa leggermente più definito – le mani sembrano finalmente toccarsi, prima di dissolversi un’altra volta in grigio. Un simulacro di tema vero e proprio lo accenna invece Shadow Paradise, ma l’effetto è quello di disturbi radio che negano l’ascolto completo, come se Burial avesse scritto un nuovo album e poi deciso di vaporizzarlo; l’idea complessiva resta però molto chiara, tanto che il finale – e succede diverse volte, in Antidawn – opta per una risoluzione paradisiaca, dalla valenza narrativa.
Chiude Upstairs Flat, gorghi di effetti da soundtrack anni Ottanta affogati nel rumore statico mentre il canto cerca di ritornare in superficie – un vecchio pallino di Burial: “gli amici mi prendono in giro perché amo il canto delle balene, ma a me piace che le voci siano così, come un pianto notturno, un animale angelico”. Se ne va così, Antidawn, con un’ennesima richiesta di vicinanza (“come get me”) che lascia il sapore di un’istantanea di una vita qualsiasi che ci è passata di fianco per un istante prima di sfilare via e farsi foschia.
Certo: non è materiale che venga voglia di affrontare ogni giorno, e si comprendono le ragioni di chi l’ha accolto freddamente sperando, se non in un ritorno a Untrue, quantomeno in una modalità espressiva meno alienante e più compatta. Antidawn, però, offre un’esperienza sonora di grande impatto emozionale, quasi catartica una volta che l’ascoltatore sia sceso a patti con un’idea di musica che non significa necessariamente “canzoni” ma riguarda anche il respiro affannato del mondo.
Nel notevole Inventario Di Alcune Cose Perdute, la storica dell’arte, scrittrice e designer tedesca Judith Schalansky dedica dodici storie ad altrettante assenze – animali estinti, isole sommerse, selenografi dimenticati, versi poetici mancanti -, nella convinzione che l’oblio sia in fondo impossibile, dato che “tutti i segni, anche quando rimandano a qualcosa di assente, rendono le cose presenti”. Trovo sia questa la ragione per cui l’arte implosa e astratta di Burial, rendendo esperibili il vuoto e la frammentarietà, risulta non indecifrabile e fredda quanto piuttosto piena di calore e umanità.
Artista: Burial
Titolo: Antidawn EP
Etichetta: Hyperdub
Durata: 43’
Bibliografia | Linkografia
- Simon Reynolds, Futuromania, Minimum Fax, 2020
- Mark Fisher, Spettri Della Mia Vita, Minimum Fax 2019
- Judith Schalansky, Inventario Di Alcune Cose Perdute, Nottetempo, 2020
- Corban Goble, NASA Scientist Identified as Voice From Burial’s Rival Dealer EP, Pitchfork
- Jeremy Gilbert, The Hardcore Continuum?, Dancecult
- The Wire, rivista, numeri di gennaio 2007 e gennaio 2008