Book of Dreams: Welcome To Crateland, dentro i sogni di Alex Proyas
Alex Proyas è quell’enfant prodige su cui punti tutto quando è giovane e poi si perde via, chissà perché, chissà come. Ad Alex Proyas dobbiamo Il Corvo, film maledetto e ormai vero cult, ma anche quella discreta bombetta di Dark CIty, destinata ad essere oscurata dal mito di Matrix, che esce ad un anno di distanza e che attinge molto da Dark City. Dopo di allora, Alex Proys dirige solo cose minori o inguardabili (Segnali dal futuro, Gods of Egypt, poveraccio). Book of Dreams: Welcome to Crateland esce lo stesso anno de Il Corvo, e ci porta dentro le ombre della mente del regista.
Mi sembra evidente che Proyas si trovi più a suo agio a girare al buio e a girare IL buio. In questo cortometraggio è proprio l’ombra, segata da tagli di luce violenti a delineare la vicenda. Mona, come apprendiamo dal titolo, esce dal buio e ci guarda e ci racconta il suo sogno. Ha l’aspetto di una femme fatale del cinema noir, con tanto di voce melliflua e sigaretta in mano.
Il suo sogno è un viaggio allucinante all’interno di una cassa, che sembra estendersi all’infinito, in una sorta di labirinto in cui è possibile solo gattonare. A spignerla in questo nuovo mondo, uno strano uomo con la pistola, versione noir di Freddy Kruger e caronte, verso quello che assomiglia più probabilmente all’inferno, che al paradiso. All’interno della cassa, Mona incontra i suoi genitori, alcuni strani e oscuri personaggi e di nuovo l’uomo con la pistola, che le rivolge frasi criptiche. Alla fine incontra forse se stessa, forse i suoi desideri o il suo vero io, ma questo non lo ricorda perché, come nel migliore dei sogni, si sveglia.
L’idea di ambientare il cortometraggio dentro una cassa permette al regista di esprimere a pieno quella passione per i contrasti chiaroscuri e per il buio: la cassa è illuminata solo da fasci di luce che penetrano tra le assi che la compongono. Proyas omaggia così sia il cinema espressionista, che quegli anni ’80 che avevano fatto nascere Blade Runner ed il Batman di Tim Burton. Questo crea una continuità proprio con Dark City, che omaggia anche più apertamente questi modelli (e cita Book of Dreams almeno un paio di volte, mostrandolo come film in cartellone nei cinema della città). Inoltre, la stessa atmosfera kafkiana, senza via d’uscita ma soprattutto senza senso apparente, accomuna il cortometraggio con Dark City. La lunghezza limitata e la cornice del sogno rendono Book of Dreams: Welcome to crateland più coeso del lungometraggio, che paga proprio una sorta di sfilacciatura dei dialoghi e della trama.
Il titolo rimanda ad una possibile “raccolta” di sogni. In verità oltre al sogno di Mona, ne esistono solo altri due che fanno parte di questo progetto (di cui uno diretto nuovamente da Proyas). Peccato, il concept era davvero interessante. E sì, vorremmo più Proyas, questo Proyas, non quello recente!