Bone Tomahawk, si scrive western ma si legge weird
Quando da ragazzino leggevo Tex capitava di tanto in tanto, tra una scazzottata coi banditi e un tafferuglio messicano, che il ranger e i suoi pards si trovassero cimentati in vicende definibili “bizzarre”: dinosauri, stregoni, alieni e chi più ne ha più ne metta. Erano storie sporadiche eppure regolari.
Andando avanti con gli anni mi sarebbe capitato di ritrovarmi in situazioni analoghe, come quando sparavo agli zombie con un Winchester per esempio.
All’epoca non lo sapevo ma si chiama weird-west, fantawestern per i revanscisti, ed è un sotto-genere codificato e riconosciuto dai tassonomisti del cinema. Si tratta della commissione del western – genere archetipico per antonomasia – con altri generi, generalmente (ahah) fantascientifici o paranormali.
A ben pensare in effetti il western più che un genere è un’ambientazione, o quanto meno un modo di rappresentare determinate ambientazioni facendole diventare specchio dell’anima dei protagonisti. Non è un caso che il genere prosperò durante il cinema muto, dando modo a gente come John Ford di diventare uno dei cineasti più rilevanti di sempre. E poi ce lo dice anche Tuco: nel west non serve parlare!
È il trionfo della razionalità e del pragmatismo ed è quindi ragionevole tentare d’innestare una componente che sfugga a queste regole per riempirne il silenzio. Se il western fosse una tela, potremmo usare vari strumenti per dipingervi, inclusi appunto l’horror, il fantasy e la fantascienza. Solo uno si ostina a invertire le cose, usando il west non come tela ma come pennello.
Ma io con quello là ho un rapporto complicato e oggi non parliamo di lui. Parliamo di Bone Tomahawk.
Bone Tomahawk, dello scrittore S. Craig Zahler, ci porta in una classicamente generica cittadina del Sud-Ovest dove la locale donzella (Lili Simmons) viene rapita da misteriosi selvaggi. Il principe azzurro (lo storpio e timido Patrick Wilson) si unisce dunque allo sceriffo (un baffuto Kurt Russell), al suo vice “di riserva” (uno spettacolare Richard Jenkins) e all’ambiguo gentiluomo (un elegante Matthew Fox, sì quello di Lost) in un’azzardata missione di salvataggio.
Partita come la più classica delle avventure, il film copre tutti i tópoi del genere: le notti intorno al fuoco, i banditi, l’inseguimento delle tracce ecc. I nostri eroi imparano a conoscersi e a superare le relative diffidenze e il viaggio dei protagonisti diventa il viaggio di noi tutti. Roba classica che è alla base.
Man mano che la storia procede però, qualcosa cambia e si trasforma. Dalle grandi praterie, simbolo assoluto del west, si passa lentamente a soluzioni sempre più anguste e gli immensi spazi aperti in cui galoppare cedono il passo a gole e cunicoli in cui si può solo strisciare. Non è più l’uomo a dominare l’ambiente, bensì il suo contrario.
L’orrore, l’orrore.
E non solo fisicamente ma anche moralmente siamo costretti a chinare la testa per poter andare avanti. Più la strada si fa tortuosa, più la parola del Signore e tutte le certezze che essa comportava vengono gradualmente meno. Ed ecco quindi che lo sbrilluccichìo di un crocifisso nella notte viene preso per quello della canna di una Colt o la mascella d’asino – quel “bone tomahawk” del titolo – che nel Vecchio Testamento armava la mano di Sansone quando faceva a pezzi i nemici di Dio, qui è invece usata dai pagani per sottomettere i pii cristiani. Coincidenze? Io non credo.
E se la parola di Dio è menzognera vuol dire che siamo arrivati oltre i confini della mappa e qui a regnare è il Diavolo.
L’ultimo atto del film è infatti un horror, un cannibal-movie per la precisione, coi controfiocchi e con più di un momento di buon splatter (se siete sensibili occhio, c’è una certa scena che potrebbe agitarvi).
Quattro protagonisti e fondamentalmente nient’altro a livello di personaggi (c’è però un cameo di quella vecchia faccia d’angelo di Sid Haig, praticamente il prototipo originale di Danny Trejo). E sono proprio i protagonisti – la cui scrittura dà modo alle origini e le doti da romanziere di Zahler di emergere prepotentemente – a compiere l’ennesima cambiamento via via che il film procede, accompagnando e rimarcando con la loro evoluzione quella transizione tra i due generi, liscia eppure contrastante, che rende questo film così riuscito.
Il personaggio di Matthew Fox ad esempio, immediatamente associabile al cavaliere senza macchia e senza paura – il concetto alla base dell’eroe nazionale americano Lone Ranger – viene via via sovvertito e il bianco immacolato dei suoi abiti fa trasparire altre sfumature sottostanti, più inquietanti e cupe. Oppure il mitico Cicoria, interpretato magistralmente da Jenkins, che da impacciato, inefficiente e fondamentalmente inadeguato vice-sceriffo si ritrova in più di un’occasione ad avere sulle spalle responsabilità forse troppo grandi per lui.
Amore, rivalsa, onore e coraggio sono destinati a diventare ossessione, vendetta, arroganza e ottusità.
Un film di spazi, idee e persone che cambiano e si trasformano come uno di quei fuochi intorno ai quali i nostri compagni si riuniscono per raccontarsi come ci sono finiti lì, ad affrontare la vita e la morte in mezzo al deserto: caldi e rassicuranti un momento, freddi mucchi di cenere fumante quello successivo.
Ottimo.