Bombino| di Azel e Desert Blues
Sono andata a sentire Bombino alla Stazione Leopolda per Fabbrica Europa 2016, con l’idea di confermare un miraggio che i miei amici nemmeno tanto segretamente coltivano, ovvero che in un certo target femminile la musica Tuareg scateni l’estro. Che il riff di una chitarra ignorante e ruvida faccia danzare quelle che si sentono le zingare del deserto e le bionde con fiori e ghirlande, al punto che immaginare un facile amore libero diventi questione di un attimo.
Per poi guardare e non toccare, ma limitarsi a bere birra, nel solito prepuberale gioco di sguardi e ancestrale incastro di cavigliere, malleoli.
Ma c’è di più. La musica di Bombino trascina lontano dal grigiume urbano, il grigiume umano, e ricongiunge le tribù disperse e i cuori strani, eternamente nomadi.
La premessa è che Bombino è un chitarrista nigerino che s’ispira a Jimi Hendrix e che è stato lanciato da Dan Auerbach, il chitarrista dei Black Keys. Un Tuareg (il Bob Marley dei Tuareg) che ha spinto una nuova generazione di rockers del deserto e che si esprime in un crescendo di battiti di mani e riff alla Led Zeppelin per il ricongiungimento del suo popolo. Un artista che per il fatto di suonare strumenti occidentali ha infranto l’interpretazione più integralista della legge coranica e non può tornare in Niger, a casa.
Akhar Zaman (This Moment) è un inizio possente, per prendere in contropiede i più composti.
Iwaranagh (We Must) serve a concedersi un attimo di respiro e ancheggiare sbarazzini. Gli assolo di chitarra sono tecnicamente perfetti, emotivamente distensivi.
L’entusiasmo, l’accuratezza e l’ora e mezzo di energia dei cinque nomadi che fondono il suono di un ngoni, una specie di liuto suonato seduti sul palco, e di uno strumento ad arco detto imzad, al suono di una chitarra elettrica alla Carlos Santana, alla Dire Straits, fanno girare la testa e lasciano vibrare le dita.
L’energia è sciamanica e galoppante in orizzonti azzurri e serenamente ampi. I piedi sono nudi in un brodo di giuggiole per amanti di commistioni e promiscue confusioni.
Inar (If You Know The Degree Of My Love For You) colpisce per il coro primitivo e incalzante, che trascina i bacini in una dimensione sperduta, dimenticata.
Tamiditine Tarhanam (My Love, I Tell You) è una selvaggia cavalcata in mezzo alle dune, un po’ con Lawrence d’Arabia, un po’ con Omar Sharif.
Timtar (Memories) è quella che preferisco, per la sua gentile apertura e per il suo equilibrio.
Il suono è coinvolgente, eccitante e contemporaneamente elegante ed ispirato. Si potrebbero utilizzare
aggettivi come spontaneo ed istintivo, ma si tratta essenzialmente di un ritmo incalzante che invoglia a enormi e pacifici falò estivi tra le spiagge, sugli scogli e nelle baie, per dirsi “non fermarti” o “non mi fermerai mai“, ma anche “sono così giovane“, “sono così libera” in uno scalpiccio di piedi nudi (di nuovo) e dita intrecciate.
Iyat Ninhay / Jaguar (A Great Desert I Saw) è il brano più energetico, esplosivo, in cui le percussioni, il suono ruvido della chitarra esprimono panorami enormi.
Naqqim Dagh Timshar (We Are Left In This Abandoned Place)
We sit in an abandoned place
Everyone has left us
The world has evolved
And we’ve been abandoned.
The whole world has evolved—
Why haven’t we?
Si parla di un genere musicale che mischia il passato nomade all’energia malinconica del presente e prende il nome di Tichumaren, il blues del deserto, in cui il sentimento colpisce più della tecnica e dell’equilibrio del suono.
La musica di Bombino, la sua chitarra suonata senza plettro, danno voce a un canto ancestrale e libero, dinamico come solo gli istinti e i suoni senza tempo sanno essere, e non serve essere figli dei fiori fuori tempo massimo o persone dotate di un’immaginazione fuori dal comune per capire che la passione e il fuoco non sono dettagli. Sono definitive prese di posizione.