BLACKkKLANSMAN, chi ha paura dell’uomo nero?
Che succederebbe se un agente di colore sotto copertura a Colorado Springs si infiltrasse telefonicamente tra le fila del celebre e temuto KKK? E se la sua controfigura negli incontri in carne e ossa, con tanto di lenzuola, armi da fuoco e croci bruciate, fosse un altro agente che di cognome fa Zimmerman?
Le premesse di Blackkklansman l’ultimo film di Spike Lee somigliano a una barzelletta, violenta e un po’ razzista: ci sono un nero e un ebreo che, fingendosi puri WASP, riescono a entrare nel gruppo di suprematisti bianchi più famoso d’America…
Quello che segue è una commedia al vetriolo, tagliente come una risata e potente come una dichiarazione politica, che ricostruisce con precisione chirurgica una storia vecchia quanto l’America. Per anni lontano dalla cinepresa, Spike Lee utilizza l’arma dell’ironia per infiammare un racconto ai limiti dell’incredibile ispirato alla vera storia di Ron Stallworth, primo poliziotto afroamericano di Colorado Springs, calibrando l’entertainment con la riflessione amara sul tema del razzismo in America.
Tuttavia, sin dall’apertura del film, ovvero la celebre scena di Gone with the wind in cui Rossella O’Hara cammmina tra i caduti della Guerra Civile, seguita dal discorso politico del prof. Kennebrew Beauregard, che passa in rassegna tutti gli stereotipi del caso (il concetto di razza inferiore, il pericolo dei matrimoni misti, la congiura ebraica e il nero stupratore), capiamo che Lee vuole spingerci a guardare ben al di là della storia che sta raccontando.
Alle spalle del prof. Beauregard, infatti, scorrono le immagini di Little Rock e del primo giorno di scuola di Elizabeth Eckford, una dei primi nove studenti afroamericani a varcare quella soglia, e quelle del film di Griffith “Nascita di una nazione”. Da queste immagini parte l’invettiva di Lee, che contiene una potente (anche perchè cinematografica) riflessione sul mezzo cinema e sul ruolo dell’estetica nel costruire l’immaginario su cui si fonda la nazione americana e nel cristallizzare e normalizzare gli stereotipi.
I bifolchi del KKK sono tanto ridicoli quanto inquietanti, ed è attraverso la loro rappresentazione che Lee intende verbalizzare l’odio, renderlo palpabile. Gli stereotipi razzisti e gli slogan dell’“organizzazione” (America first, Make America great again: vi ricordano qualcuno?) sono neutralizzati nel loro essere grotteschi (come nella spassosa scena in cui il capo del KKK spiega al telefono con l’agente Stallworth la sua assolutà capacità di riconoscere un “ni**er” da come pronuncia la parola “when”) pur rimanendo potenti quanto la stupidità.
Al ritmo funky del montaggio, sostenuto da una colonna sonora militante (Say it loud, I’m black and proud), Lee recupera riferimenti della blaxploitation, girando in analogico per rimanere fedele al clima degli anni ’70, senza tralasciare mai di strizzare un occhio al presente, nel dichiarato obiettivo di filmare una wake-up call che, in un contesto politico generale di destra crescente, sia in grado di svegliare le coscienze ovunque sia necessario. Da qui, la scelta finale di mostrare l’omicidio di Charlottesville del 2017, rispondendo all’urgenza del regista di collocarsi “on the right side of History”.
Carlotta Centonze